Sui luoghi di Alien Thriller a Perfugas

Tra gli appuntamenti di questo 2021, ce n’è uno dedicato a una raccolta di racconti molto particolare, Alien Thriller.

Qualche mese fa, quando sono stata coinvolta in questo progetto, sono rimasta un po’ perplessa. Non avendo mai scritto qualcosa attinente alla fantascienza, non sapevo bene in che modo avrei potuto contribuire. Poi, come spesso accade, ho avuto una piccola ispirazione. Potrei dire quasi una “folgorazione”, osservando il pozzo di Predio Canopoli. È da lì che nasce La Sacerdotessa.

L’idea di raccontare questo libro a Perfugas è stata accolta con entusiasmo dalle ragazze de “Sa Rundine”.  

E così, all’interno degli appuntamenti legati al “Tè Letterario”, ci sarà anche Alien Thriller.

Tè, alieni, siti nuragici… gli elementi per rendere un incontro interessante ci sono tutti. Insieme a me ci sarà Fabio Solinas, amico e operatore culturale. A prestissimo!

Prospettiva privilegiata

di Daniela Piras

X

La prima volta che lo vidi era estate inoltrata, il vento caldo non riusciva a smorzare l’aria rovente e il sole faceva scintillare le rocce chiare di granito che s’intravedevano in lontananza. Trasudava dentro alla divisa blu, appoggiato al cancello di fronte all’ingresso della Banca di Credito Sardo. Non era bello, né particolarmente affascinante; capelli scuri cortissimi, occhi scuri, altezza nella media e sguardo distratto. Quello che mi colpì maggiormente, inutile negarlo, fu la divisa. Quel blu scuro così ordinato, quelle stellette sistemate in cerchio ai lati delle spalle, il cinturone e la pistola.

“È un poliziotto”, mi dissi, sbagliando.

Iniziai a camminare insieme a mio figlio, che tenevo per mano. Gli passai così vicino che non poté non notarmi. Lo sfiorai, quasi. Una volta che riuscii a catturare l’attenzione dei suoi occhi, gli sorrisi.

Belshar mi teneva la mano stretta e mi osservava, curioso. All’epoca aveva solo otto anni anche se si comportava in maniera assennata, quasi a voler contrastare il mio modo di fare, avventato e talvolta irresponsabile. Da qualche anno, però, mi ero ripromessa di seguire la retta via. Esattamente da otto anni prima, dalla sua nascita. Belshar non aveva un padre, non l’aveva mai conosciuto. Come me, in fondo. Mi vergognavo anche con me stessa e ancora oggi, quando ci penso, mi sento male. Non sapevo chi fosse il padre di mio figlio. Ero indecisa tra due uomini. A lui avevo detto che io e suo padre ci eravamo lasciati quando lui era piccolissimo, avevo detto che suo padre era partito per un Paese lontano, dall’altra parte del mondo. In realtà non mi ero mai posta seriamente il problema, non mi interessava sapere con esattezza chi fosse il padre di mio figlio. I due probabili erano pari in quanto a deficienza e con entrambi si era trattato di una storia di una notte quindi, sapere quale fosse, esattamente, il deficiente con il quale avevo concepito il mio bambino, non mi interessava granché.

L’uomo in divisa ricambiò il sorriso, visibilmente imbarazzato. Mi accorsi della sua reazione e mi sentii lusingata. Ero ancora bella.

Ci dirigemmo verso casa di Enrico, l’anziano a cui tenevo compagnia. Enrico era un uomo cortese, alla vecchia maniera. Aveva i modi da gentiluomo che si leggono nei romanzi rosa. Mi aveva accolta nella sua casa senza diffidenza. Vivevo a casa sua, facevo la badante a tempo pieno. Mi occupavo della casa, delle pulizie, di fare la spesa ma, soprattutto, mi dedicavo a lui, a fargli compagnia. Solo compagnia. Anche se in paese le malelingue si davano molto da fare nell’additarmi come la sua amante. L’amante mantenuta romena. La parola romena faceva rima con prostituta, per loro. Enrico era a conoscenza delle voci che giravano ma le ignorava. Io cercavo solo di fare bene il mio lavoro e di far crescere Belshar nel miglior modo possibile, anche se la vita in quel piccolo paese cominciava ad andarmi stretta. Erano quasi tre anni che vivevo nel centro della Gallura, in un paese di trecentocinquanta anime. Quella mattina ero uscita con Belshar a fare le solite commissioni, vista la giornata particolarmente bella avevo approfittato per fare un giro un po’ più lungo del solito ed ero passata anche nella zona centrale.

Una volta a casa preparai il pranzo ad Enrico e poi andai nella mia camera. Belshar si era fermato a giocare nella piazzetta di fronte, dove aveva incontrato una sua amichetta.

Mi sedetti e cominciai a pensare. Riflettei su quella che era stata la mia vita e sul punto a cui era arrivata. La Sardegna mi piaceva molto, non avevo intenzione di andare via. Mi sentivo, però, come in una gabbia, la vita del paesino non mi soddisfava più. La sicurezza acquisita aveva reso la mia vita piatta e prevedibile.

Qualcosa cominciava a balenarmi nella testa, e aveva a che fare con l’uomo in divisa.

Y

La prima volta che la vidi era estate inoltrata. Mi ricordo che c’era un caldo soffocante. Avevamo ancora le divise autunnali, quelle con le maniche lunghe. Era il mio primo giorno di lavoro alla banca. Ancora oggi mi chiedo come mai avessero sentito la necessità di far vigilare l’ingresso della banca in un paesino così tranquillo dove, a memoria di uomo, non si ricordava una sola rapina. Ad ogni modo quei turni erano devastanti, mi toccava fare ogni giorno centoquaranta chilometri, tra andata e ritorno. Mi alzavo la mattina alle sei, per essere al lavoro alle otto e andavo via alle tre. Imprecavo contro quel caldo afoso e sognavo mi piazzassero un ventilatore proprio lì davanti. La tranquillità, nel nostro lavoro, fa spesso coppia con la noia. Contavo i minuti e poi le ore, e il tempo non passava mai.

Mi ricordo che appena la vidi non riuscii a staccarle gli occhi di dosso. Cercavo di far finta di niente, guardando qui e là, in maniera nervosa. Non si vedevano spesso donne così, e non se ne vedono tutt’ora. In segno di rispetto verso il bambino che teneva per mano mi limitai a guardarla con discrezione.

Non so se si accorse che la guardavo, o se si avvicinò per caso. Me la ritrovai ad un passo. Mi sorrise con sfacciataggine. Ero sicuro di piacerle davvero. Almeno così mi fece credere, per anni. Allora non avevo dubbi. A pensarci ora mi sento proprio uno stupido. All’epoca uscivo con Marzia, una ragazza del mio paese, ci vedevamo da un paio di settimane. Ho sempre pensato che fosse una brava ragazza, e forse io non sono fatto per le brave ragazze. So che si è sposata e che ha avuto due figli. Ogni tanto chiedo di lei ad amici in comune. E mi chiedo cosa sarebbe successo se quella straniera non fosse entrata nella mia vita in maniera così sfacciata. Per tutto il mese che passai in Gallura mi assillò con la sua presenza. Aveva un piano, e ora ne sono certo.

Credeva fossi un poliziotto! Solo un’idiota poteva confondere un vigilantes con un poliziotto. Un’idiota o una romena. In ogni caso una persona che viene da un altro mondo.

Me l’aveva detto mia madre, eccome se me l’aveva detto! Non le era mai piaciuta, quella romena.

XY

Lo sapevo, lo sapevo io che quella avrebbe finito per rovinarlo!

Ora è lì, e non sa dove sbattere la testa. Questa camera è colma come un uovo, le mie cose sparse senza un ordine preciso. Quanto cambiano in fretta le cose, non si ha il tempo di abituarsi.

Ecco, ora ce l’ha di nuovo con me. Mi guarda e scuote la testa. Si aspetta forse una risposta? Ormai non ho più niente da dire, se non queste due date. L’inizio e la fine. E se potessi parlare non mi interesserebbe nemmeno parlare di quella. Quello che avevo da dire l’ho già detto all’epoca, e non sono stata ascoltata. Ormai è tardi. Inutile piangere. Inutile anche cercare di nascondere quella lacrima, io vedo tutto. Posizione privilegiata, la chiamano così. Vorrei solo sapere dove si trova Ketty, la mia adorata gattina. Non so dove l’abbiano portata ma è sicuro che non vive più qui. E dentro a questi scatoloni non c’è di certo. Cerco di comunicare con mio marito ma senza successo. Già era difficile in vita, ora pare proprio impossibile. Siamo vicini ma non siamo nella stessa orbita. Non so dove sia finito, forse ha approfittato della tragedia per liberarsi finalmente di me. Quindi sono sola. Cenere eravamo e cenere torneremo. Ecco che suonano alla porta. Ospiti nella mia casa. Li vedo entrare nella sala, mi si siedono proprio davanti. Lui offre da bere. “C’è di tutto: coca cola, aranciata, caffè, ditemi voi cosa preferite”. Ovvio che c’è di tutto, la tenevo fornita io, la dispensa, e così il frigo. Non ho mai badato a spese, e non rimpiango niente. Quanto casino in questa casa, ci vuole coraggio ad ospitare degli amici. A guardarli bene, però, non sembrano amici, questi due, sono vestiti in maniera troppo formale. Eccolo che si mette nuovamente a cercare dentro gli scatoloni. Ma cosa cerca? Documenti? Testamenti? Sì che gli ho lasciato tutto, ovvio, è figlio unico. Sì, è vero, gli ho lasciato anche i debiti, ma chi ci pensava di andarsene così presto? Mi viene un dubbio inquietante: vorrà vendere la casa? La casa che non ho fatto in tempo a pagare? Mi dovrò trasferire? Va bene che ormai occupo poco spazio, ma cambiare casa fa sempre un certo effetto! In ogni caso non lo vedo bene, mi sembra che questi traumi e queste corna gli abbiano fatto girare il sistema nervoso. Ecco di nuovo il sopracciglio che balla, e il piede che batte due volte il tempo. Tutti questi tic non sono indice di benessere. E comunque avevo ragione io, questi due che sorseggiano la mia coca cola sono qui per vendere la mia casa. Povero figlio, in che casini sei finito, per non aver dato retta a tua madre.

Non riesco a pensare ad una soluzione. Cerco di ascoltare bene quali sono esattamente i debiti che ti ho lasciato. I due in giacca si guardano intorno mentre parli, sono incuriositi dai quadri alle pareti e da tutti i miei souvenir. Uno di loro mi nota e arriccia il naso. Cenere eravamo e cenere torneremo. Di cosa si stupisce? Ho solo cambiato stato. Sono finalmente riuscita a dimagrire, in vita non mi era mai riuscito. Ora ho finalmente una forma elegante, con i fianchi ben segnati. Lineare e allungata, la mia forma. Tono muscolare forte, marmoreo. La foto a fianco non mi rende giustizia.

JL

Il corridoio davanti a me è illuminato da una luce artificiale, a tratti troppo forte.
“Sarebbe bello poter tornare indietro”, medito, persa in mille pensieri. Ciò che è successo questa mattina mi sta pressoché ossessionando. Non so se ho fatto bene a reagire così a quella proposta; non so nemmeno se chi me l’ha fatta si sia reso conto di quello che avrebbe potuto significare, per me, in quel momento. A volte si parla troppo e senza pensare troppo. Eppure sarebbe così bello se tutti valutassero con accortezza l’opportunità di aprire bocca, di tastare l’atmosfera, di valutare i segnali tipici della comunicazione, anche non verbale. Ora, cosa possa aver fatto credere a Fabrizio che io avrei potuto anche solo prendere in considerazione una proposta di matrimonio, non mi è dato sapere. Il contratto vitalizio dei sentimenti. L’istituzione più obsoleta e sopravvalutata. La sua domanda era inopportuna, la mia risposta scontata. La reazione di Fabrizio, invece, piuttosto singolare. Ha preso il cofanetto ancora chiuso e si è ritratto, come colpito da una lancia. E io mi sono sentita tradita. Era un modo per avermi più vicina, ma è servito solo per allontanarmi definitivamente.
Mi fermo per cogliere l’offerta di un altro bicchiere d’acqua e continuo a osservare il corridoio. Pranzi pronti in confezioni sottovuoto iniziano a invadere gli spazi: verdure, carni, salse colorate, sapori e odori che mi portano alla mente la mensa scolastica della terza elementare. Ancora acqua. Comincio a essere insofferente, a non sopportare più le persone intorno a me. Le osservo da ore e potrei descrivere esattamente la curva dei loro capelli e il colorito della loro pelle. Parlano, sfogliano riviste, premono i bottoni posizionati di fronte a loro e ascoltano musica con gli auricolari.
Provo ad alzarmi, ma qualcosa mi trattiene, non ho più equilibrio e i timpani mi fanno male. Penso alla perdita della libertà, agli incubi che avevo da bambina, alla spiacevole sensazione di essere destinata a vivere tutte le situazioni peggiori che la vita può riservare.
Forse avrei dovuto essere più diplomatica, dire che ci avrei pensato su. Troppa sicurezza, a volte, non fa bene. Non mi sono presa nemmeno un minuto, non ho esitato un istante prima di rifiutare. Ecco cosa lo ha ferito di più: il fatto che io non abbia dimostrato di volerla prendere in considerazione, la sua proposta. In effetti, avrei potuto essere meno precipitosa, guardare dentro i suoi occhi e immaginarmi con un abito bianco, in mano un bouquet di fiori d’arancio, con tanta gente intorno che festeggia la mia conquista della felicità. Eterna. La purezza che mi acceca, le scarpe bianche con il tacco sottile. Antipasti, tartine, calici di vino sorseggiati con le braccia incrociate e i regali, le lacrime dei parenti, le amiche commosse, i cugini lontani che sussurrano «finalmente» a denti stretti. E i saluti a tutti, amici, parenti ritrovati, colleghi, ex colleghi, conoscenti e perfetti estranei che si accompagnano a loro, i loro auguri. Auguri di vedermi sempre così felice, così ben pettinata, così ben vestita, così radiosa. Chiudo gli occhi e vedo la torta nuziale, poi un forte botto mi scombussola la pancia. La cerimonia è finita.
Guardo l’orologio da polso. Le cinque. Il pollo con la salsa tailandese mi rigira nello stomaco. Mi addormento per la terza volta in poco tempo.
Mi risveglio con le labbra secche e cerco con lo sguardo la hostess addetta alla distribuzione dell’acqua. Sento i piedi pesanti e le gambe bloccate, l’insofferenza aumenta. Ho perso qualsiasi cognizione del tempo e dello spazio e la mia vita sembra così lontana. Cerco di riuscire ad affrontare tutto, ma non è semplice.
Mi viene in mente una cosa successa da ragazzina.

Avevo quattordici anni e mi trovavo da un parente, all’estero. Dormivo nella camera degli ospiti, una piccola stanza con il letto singolo, un armadio a due ante e una grande finestra che si apriva sui tetti a punta marroni. Ero solita lasciare la persiana della finestra sollevata per metà, in modo che nella stanza non ci fosse mai buio totale. Una notte, qualcuno, entrato prima di me, aveva abbassato del tutto la persiana. Non me ne accorsi subito perché ero andata a letto che era già notte. Mi addormentai e mi risvegliai dopo qualche ora, come al solito, per andare al bagno. Aprii gli occhi e non vidi nulla. Non riuscivo a focalizzare niente, ero immersa nel buio più totale. La finestra che di solito rischiarava la stanza sembrava scomparsa. Non c’era differenza tra tenere gli occhi chiusi o aperti. Una sensazione bruttissima. Cominciai a esplorare a memoria le pareti, alla ricerca dell’interruttore del lampadario, più le mie mani tastavano il muro, più l’angoscia cresceva. Non riuscivo a riconoscere le cose al tatto, non distinguevo un’anta dalla parete ruvida, la finestra da un quadro. L’interruttore sembrava introvabile. Un giro, due giri, tre giri, niente. Decisi allora di cercare direttamente la porta, ma non trovai neppure quella. Iniziai a sudare, in quell’agosto afoso, dentro quella stanza buia, persa completamente nella notte. Gli occhi totalmente inutili. Alla fine, credo per assoluta casualità, riuscii a trovare la maniglia e spinsi forte. Mi ritrovai nel corridoio che, seppur poco illuminato, permetteva ai miei occhi di percepire di nuovo le linee e le distanze.
La paura provata all’epoca torna immutata. Provo di nuovo ad alzarmi, ma senza successo. L’acqua che riesco a farmi dare questa volta è gassata ma sta perdendo l’effervescenza. Non riesco a capire come i miei vicini riescano a stare fermi, seduti, tranquilli e a chiacchierare come fossero seduti al tavolino di un bar, davanti a un tè.
Penso ai carcerati, alle loro giornate. Guardo di nuovo l’orologio, anche se mi rendo conto che è un gesto totalmente inutile. Mi riaddormento e mi risveglio dopo un tempo imprecisato. Mi guardo intorno, le persone vicino a me sembrano diverse. Una voce altisonante ci parla. Cerco di capire il significato di quell’annuncio ma troppe parole straniere mi sfuggono. Mi porto le mani alle orecchie e cerco di poggiarle come fossero conchiglie, ma il dolore ai timpani non cessa.
Mi torna in mente l’impossibilità di ritornare indietro nel tempo e, nello stesso momento, prendo coscienza della falsità di questo pensiero. Posso ancora cambiare idea, posso evitare di escludere a priori la proposta del contratto vitalizio dei sentimenti, posso ancora mettere in discussione tutto. In tutto questo tempo, sono stata cieca, sorda, immobile, stanca.
Mi rendo conto che tutto sta per finire quando torna il dolore al basso ventre, come un pugno. Mi piego e porto le mani sulla pancia. Il fastidio dopo qualche minuto passa e posso riprendere a respirare regolarmente. Sento l’aria artificiale che mi arriva dal bocchettone. Una voce, questa volta più chiara, ci comunica che non manca molto e capisco di avere un’altra possibilità. Passo da uno stato all’altro, dall’aria alla terra, in un attimo. Si accendono le luci rosse di divieto. “Vietato uscire”, “vietato alzarsi”, “vietato fumare”. Ma è quasi tutto finito. Ma il tempo è passato, o no?
Finalmente riusciamo ad alzarci tutti. Usciamo.
Una grande sala alla fine del corridoio. Il gelo che invade sin dentro le ossa. Una mattina gelida ci accoglie. Un grande orologio segna le dieci. È passato così poco tempo da quando ho incontrato Fabrizio? Non è successo niente di irrecuperabile, posso ancora cambiare il corso delle cose, posso dire di aver avuto il tempo di rifletterci. Potremmo chiamarlo destino, seconda possibilità, magia.
Ma è semplicemente il fuso orario, unito allo stordimento del jet lag.

JL di Daniela Piras
Racconto pubblicato sull’antologia “Racconti dalla Sardegna” (Historica Edizioni, 2018)

L’usciere

di Daniela Piras

La sala d’attesa era già stracolma di gente, quella mattina di metà dicembre.

Piero guardava le facce delle persone sedute di fronte a sé e si chiedeva il perché. Nello specifico si chiedeva il perché di quel cambiamento inaspettato e per niente voluto, avvenuto in una fase così delicata della sua vita. Eppure c’era quasi riuscito, nel suo intento. Non lavorare mai, almeno non nel senso becero del termine, e vivere dignitosamente con il suo stipendio da usciere.

Ah, i bei tempi andati! Quanti ricordi gli affollavano la mente, in quella come in altre mattine precedenti, e lo aiutavano ad andare avanti, a farsi forza. Quante belle passeggiate, quante belle chiacchierate, e i caffè di metà mattina al bar vicino. Il suo barista di fiducia, Maurizio, il suo “Buongiorno” così familiare, gli odori di croissant alla crema, gli aromi dei chicchi di caffè appena tostati, e quei profumi che invadevano delicatamente gli spazi del locale di via Pertini; la gente che passeggiava, si fermava per una pausa, e con lui interagiva. Ora, invece? A volte credeva di essere diventato invisibile. Dietro quella scrivania tondeggiante, e quel triste cartello: Ufficio informazioni. A cinquantotto anni! Non è un’età in cui si può cambiare Vita, così, alla leggera. Ma doveva tenere duro. Mancavano solo pochi anni all’età pensionabile, doveva stare calmo e cercare in qualunque modo di abituarsi alla sua nuova condizione di lavoratore. E, piano piano, con la giusta flemma, si stava abituando. Passare da un lavoro-non lavoro ad avere una collocazione chiara non era stato semplice. Gli mancavano i suoi colleghi, che gli erano stati sempre vicino per quasi trent’anni, e che lui considerava ormai la sua famiglia. Quella mattina Piero era più inquieto del solito, non riusciva proprio a stare seduto, si costrinse a focalizzare l’attenzione su qualcosa di materiale, e di presente. Guardò in mezzo alla folla, tra gli utenti, poi si perse nel profilo di una giovane ragazza che stava in piedi davanti a lui. Notò la linea delle labbra, perfetta, messa in risalto da un rossetto dalla tonalità arancio, e le ciglia lunghe. I capelli color crema, lisci come seta, acuivano quella percezione di ordinata freschezza. La ragazza guardava il tabellone davanti a sé con evidente impazienza, tenendosi il cappotto chiuso con le mani. Uno sguardo al tabellone luminoso, un orecchio teso a sentire l’annuncio della lettera e del numero chiamato, uno sguardo distratto rivolto alle altre persone in fila. Piero pensò che gli piaceva, e molto, poi realizzò che poteva essere non solo sua figlia, ma addirittura sua nipote; lui, però, era un uomo solo e senza famiglia, per cui questi pensieri restarono nella sua testa per una manciata di secondi, dopo di che riprese a fissarla, cercando di non dare nell’occhio.

Le ore non passavano mai, e Piero si sentiva come dietro le sbarre, gli sembrava quasi di poterle toccare, a volte, si sentiva come se gli avessero legato alla caviglia una palla e una catena, come quelle che aveva visto in Tv, nelle scene di alcuni film storici. Si sentiva davvero in galera, peggio, si sentiva come una bestia feroce in gabbia. Girò la testa prima a destra, poi a sinistra. Gente, gente, e ancora gente, in fila. Tutti presi nella lettura di qualcosa, concentrati ed assenti. Ognuno nel suo mondo. Questo spettacolo lo deprimeva, lui adorava i contatti sociali, reali, palpabili! Le chiacchierate con la gente, ah, quanta gente che aveva conosciuto quando faceva l’usciere! Una parola tirava l’altra, tutti, tutti si avvicinavano a lui, era stato il primo punto di riferimento dell’intero ufficio anagrafe per una vita!

– Scusi?
– Sì, dica.
– Qual è lo sportello dove richiedere uno stato di famiglia?
– Qual è lo sportello dove fare il rinnovo della carta d’identità?
– A che ufficio devo rivolgermi per richiedere un cambio di residenza?
– Qual è, qual è, qual è…

E iniziavano i discorsi, sul più, sul meno, sulle mezze stagioni ormai scomparse, sui buoni sentimenti di un tempo, sui rapporti umani ormai andati, sulla solidarietà scomparsa, su tutto quello che prima era meraviglioso e che ora non esisteva più, e un “ma come la trovo bene”, “ma quanto tempo, e i tuoi figli?” “Eh, il governo, piove sul bagnato, ormai sono tutti raccomandati…” e poi, quando la conversazione si infittiva:

– Caffè?
– Certo, perché no?

Caffè, chiacchiere, sorrisi, storie, strette di mano, buon lavoro, saluti a casa, passate a trovarmi, Maurizio, segna sul mio conto, no no siete miei ospiti, non ci provate nemmeno… pausa caffè, pausa sigaretta, pausa per prendere aria, ché all’ufficio anagrafe c’era sempre caldo…

E poi: la ricollocazione, il trasferimento, le nuove mansioni. Gli avevano dato la notizia così, senza un minino di tatto. L’ufficio anagrafe si sposta, OUT, gli uffici emigrano, gli impiegati si spostano, si delocalizzano… Ah, la globalizzazione! lo aveva sempre saputo che non avrebbe portato niente di buono. Ne aveva parlato subito con Lucio, storico edicolante di via Pertini, e Lucio non poté che dargli ragione, anche secondo lui tutto quel via vai era parte di un piano ben studiato per far morire il centro della città, a favore della periferia. E in città era così da un po’, strutture mastodontiche nascevano così, dall’oggi al domani, con uno scopo, per poi restare semi abbandonate per anni, prima di trovare un altro perché. In quel caso, gli uffici dell’anagrafe si spostavano in un ex centro per anziani mai avviato, all’interno del quale erano già presenti da qualche tempo altri uffici della pubblica amministrazione.

Nessun ragionamento e nessuna conquistata consapevolezza poteva servire a cambiare lo stato delle cose. Allora Piero aveva iniziato a salutare tutti: i baristi, i commercianti, gli artigiani, i ristoratori ed era andato a riordinare le sue cose, per poi accorgersi di non avere niente. Lui era l’usciere, non aveva una sede fisica, era libero, libero dipendente in libero ufficio, era un generico della pubblica amministrazione. Ci aveva messo un po’ a somatizzare il tutto. Non aveva ancora ben realizzato che si era trovato dietro quella scrivania a mezzo cerchio, con una sedia, una sua sedia. La guardò con disprezzo, ripromettendosi di usarla il meno possibile. Dopo quasi trent’anni di lavoro fatto in piedi, a che pro una sedia? “Cambio di competenza, riassestamento delle mansioni”. All’inizio del suo lavoro come usciere, in tempi remoti, anche lui aveva una sua struttura: una scrivania e una sedia, di quelle girevoli. Aveva provato a starci su, ma quel continuo girare gli faceva venire il capogiro, e poi, così seduto, non era visibile da tutti. Decise allora di porla nel deposito, nello stanzino posizionato alla fine del corridoio principale, la smontò e la poggiò su uno scaffale. Per gli anni a venire lavorò rigorosamente in piedi, o poggiato al bordo della scrivania, in maniera molto informale e giovanile. Provò ad esprimere le perplessità riguardo la sua nuova postazione a chi di dovere.

– Come sarebbe a dire: “che me ne faccio di una sedia?” – Gli chiese Diego, il capo del personale, piuttosto scocciato, guardandolo dall’alto in basso.
– Una sedia è, come posso dirti, limitante, ecco, e anche superflua.
– Ma Piero, siamo qui per lavorare! Tu devi stare seduto, ecco spiegato il motivo della sedia!
– Ma non posso farlo in piedi? All’ufficio anagrafe non la usavo mai…
– All’ufficio anagrafe, Piero, mi spiace dirtelo, ma la tua figura era inutile! Qui almeno avrai uno scopo tangibile, se gli utenti non ti troveranno nella tua postazione, chiederanno di TE! Sarai finalmente identificabile, non sei contento?
– Mah, a me fare l’usciere piaceva, e mi gratificava anche, non mi sentivo certo inutile…

Con i colleghi non era andata meglio, non lo capivano, non c’era verso. Ma come poteva fargliene una colpa? Come riuscire a spiegare che quello passato era il lavoro più bello del mondo? Come? Quando ai bambini si chiede cosa vogliono fare da grandi, nessuno risponde “L’usciere dell’ufficio anagrafe!”. Invece il segreto della felicità era tutto lì. E solo ora capiva quanto era stato fortunato. Lo capiva adesso che era troppo tardi per tornare indietro e, in ogni caso, non avrebbe potuto certo rifiutare il nuovo incarico.

Bloccato nella morsa del suo spazio limitato, Piero girava e rigirava, due passi in avanti e due indietro, fino ad arrivare a formare un cerchio, fino a identificarsi in una tigre in catene. Un occhio all’orologio, un altro alla collega, uno sguardo di disappunto alla finestra lasciata impunemente aperta ad accogliere il gelo. Ormai era in preda ad un esaurimento nervoso. Dava le informazioni essenziali agli utenti, ed era al secondo posto anche in questo. Le persone, infatti, appena arrivavano, chiedevano alla guardia giurata in che modo si dovevano destreggiare, e la guardia sorrideva loro e li indirizzava con fare sornione: il numero da prendere è questo, dovete aspettare un po’, avete quindici persone davanti, questa è la sala d’attesa, potete accomodarvi, questo il codice da controllare nel tabellone, state attenti, non c’è di che, siamo qui per servirvi, arrivederci.

Piero non lo tollerava, sentiva che faceva, in maniera totalmente abusiva, il suo lavoro. Mica era l’usciere, quello! Era una guardia, era armato! Era lì per garantire la sicurezza, mica per altro! Anche se, con quel sorriso da fotomodello mancato, quel modo di atteggiarsi e di sculettare, se le sapeva ammaliare bene, le persone. Piero veniva dopo, quando proprio non riuscivano a ottenere tutte le risposte dalla guardia giurata, e spesso, vista la difficoltà delle stesse, nemmeno Piero aveva quelle risposte. Le leggi cambiavano troppo spesso, le regole anche, per essere memorizzate. E lui si sentiva totalmente inutile.

Le mattine passavano lente, densamente lente, e Piero cercava di accorciare i tempi tra una sosta alla macchinetta del caffè (era solito berne almeno tre), un paio di escursioni al bagno, una pausa “per cambiare aria”, una “per sgranchirsi le gambe”, ma le mattine passavano lentissime, comunque.

Quella mattina, la solfa era particolarmente pesante. Tentò allora di concentrarsi sui regali di Natale che ancora non aveva scelto, prese carta e penna e iniziò a tracciare una piccola tabella, a sinistra, nella prima casella libera, inserì il nome del parente e a destra, nella casella attigua, il regalo da acquistare. Era un passatempo poco piacevole, la maggior parte dei parenti che aveva non lo chiamavano mai, durante l’anno. Poco prima di Natale, però, nessuno si dimenticava di fare un saluto a “zio Piero”, lo zio scapolo, senza famiglia, con lo stipendio statale. Tutti i suoi parenti, dalla vicina sorella al lontano cugino, si preoccupavano della sua salute, dal dieci di dicembre in poi, tutti avvertivano l’utilità di parlargli di qualche progetto importante in attesa di finanziamento, come ad esempio un prestigioso Master Intel Job Service che il nipotino avrebbe tanto piacere di frequentare, ma che, di questi tempi… e il Natale, per Piero, altro non era che un elenco su un foglio, come quello che aveva davanti, e inviti a pranzi e a cene in cui vedeva, e a stento riconosceva, nipoti, cugini e parenti tutti.

Ad un certo punto, nella sala gremita, l’atmosfera cambiò, la gente iniziò ad alzarsi e a camminare veloce verso l’uscita. Una specie di sirena prese a suonare, Piero non capiva, si girò per chiedere alla collega dell’accettazione ma quella era già andata via, di corsa. Cosa succedeva? Poteva trattarsi di un’esercitazione anti incendio, di una prova per verificare l’idoneità delle uscite di sicurezza, un controllo partito dai piani alti. La gente, però, pareva davvero preoccupata. Piero non si mosse dalla sua postazione, non gli sembrava il caso di abbandonare così la sua scrivania, poteva essere tacciato di assenteismo, glielo avevano detto appena arrivato, i suoi nuovi colleghi: “Pochi giri e giretti, Ex Usciere, ché qui non siamo all’ufficio anagrafe! Qui partono le segnalazioni per assenteismo!” e lui ci credeva, ai suoi nuovi colleghi, eccome se ci credeva.

Decise di cercare con lo sguardo la guardia giurata, il suo inconsapevole rivale.  Lo vide trotterellare avanti e indietro, con la mano nella fondina, ma senza tirare fuori la pistola. Lo sentì urlare: “Tutti fuori di qui! Allarme attentato! C’è una bomba nella sala!”. Ripeté la frase per tre volte, poi anche lui corse verso l’uscita di sicurezza. La sirena continuava a suonare. Piero era sempre più confuso e disorientato.

“Questi mi vogliono fregare, scommetto che è una pratica subdola e spettacolare per vedere chi è davvero ligio al dovere e chi no. E io? Io sono ligio, non mi muovo di qui fin quando non arrivano ordini dai superiori, quell’ammaliatore in divisa non mi convince, non mi sono mai fidato di lui, mai. Aspetterò.” Piero si sedette sulla sedia, riscoprendone improvvisamente l’utilità, e si guardò intorno. Non c’era quasi nessuno, ormai, e gli ultimi erano in preda al panico. Ad un certo punto si sentì un boato enorme e tutto saltò in aria, rovente.

Di Piero si persero le tracce. Il comunicato ufficiale, dopo qualche giorno, parlò di “tragica scomparsa”.

“Era un grande lavoratore, era!”, fu la frase che più si sentì nei giorni a seguire.

Consigli direzionali

Sassari 15 agosto 2016

In queste ore, dove abbondano le polemiche sui social riguardo i fischi de La Faradda, ho voluto scrivere un racconto con una chiave di lettura del tutto ironica che spero aiuti a stemperare la tensione accumulata. A zent’anni!

Daniela Piras

“Consigli direzionali”

Erano giorni tipicamente estivi. Il forte caldo veniva smorzato dai venti che arrivavano dal mare, gli alberi del viale ospitavano, nelle ore pomeridiane, gruppuscoli di anziani e ragazzi che si radunavano per fare una chiacchierata e per “cercare il fresco”.
Al palazzo del comune aleggiava la solita aria da mezza estate, ci si preparava per affrontare la settimana dei festeggiamenti de “La Faradda de li Candereri”, quell’anno diventata nei manifesti affissi in tutta la città, la più “italiana” Discesa dei Candelieri. Tra un caffè di metà mattina e una controllata ai social, dove verificava lo stato di avanzamento delle critiche rivolte alla maestosa opera in corso costituita dalla pista ciclabile, il sindaco si teneva informato sugli umori dei suoi concittadini, animato da un modesto ottimismo, fiducioso del fatto che in fondo stava lavorando bene e che le critiche lette sui vari gruppi Facebook fossero solo lo sfogo di infelici sconfitti facenti parte dei partiti dell’opposizione.
All’improvviso, mentre navigava sulla sua home page, la sua attenzione venne rapita da una singolare foto, rappresentante una serie di cartelli di indicazioni stradali a ridosso di una rotatoria, in una zona semiperiferica della città.
Insieme ai cartelli indicanti la direzione da seguire per recarsi a Osilo, a Scala di Giocca, a Ossi e a Serra Secca, ne spuntava uno, di un blu acceso, che indicava, molto poco eticamente, la strada per “andare affanculo”, precisamente c’era scritto proprio “Anche affanculo”. Come era possibile? Chi era il delinquente che aveva orchestrato quello scempio? Urgeva porvi rimedio!
Prima di agire, però, consapevole della facilità con cui si poteva incappare in gaffe sui social, il sindaco sospirò piano, per ben tre volte. Chiamò poi nell’ufficio i suoi più fidati consiglieri, per metterli al corrente di ciò che aveva scoperto. La riunione durò quasi due ore, bisognava essere accorti nella decisione da prendere poiché il periodo era parecchio critico e sui social, in particolar modo, si annidavano orde di contestatori, odiatori di professione, antagonisti politici e perdi tempo i quali erano soliti commentare tutti gli stati del primo cittadino in maniera a dir poco polemica.

Il sindaco era stanco di tutto questo astio e si chiedeva come mai la vasta percentuale dei suoi elettori non fosse in grado di fronteggiare questo attacco virtuale.

E ora anche il cartello blasfemo! Si decise di mandare una squadra di tecnici a rimuovere l’indicazione verso “quel paese”. Gli assessori contattarono immediatamente chi di dovere affinché indirizzasse gli operai sul luogo dell’abominevole sfottò. I lavoratori, di malavoglia, si recarono con l’ape 50 di ordinanza sul posto e iniziarono a cercare il cartello incriminato, ma senza successo.

– Ma dov’è? – chiese il caposquadra.
– Dovrebbe essere qui, dalla foto appare ben chiaro quale sia la rotonda – rispose uno degli operai.
– E allora perché qui non si vede nulla?

Il mistero si infittiva sempre più e, dopo circa mezz’ora, il responsabile della squadra chiamò negli uffici direzionali comunicando la difficoltà di trovare il cartello. Il sindaco si infuriò e picchiò i pugni sul tavolo, colpendo per errore il porta penna e imprecando per il dolore. Ripresosi dagli spasmi cominciò ad inveire contro gli operai, i quali non erano in grado di trovare manco l’acqua al mare, a suo dire.

Dall’altra parte, il responsabile, capì di aver sbagliato a fare quella telefonata e all’improvviso, mentre in sottofondo gli improperi del sindaco erano nella fase terminale, riuscì a dire all’impiegata: “Eccolo, lo abbiamo trovato, è tutto a posto!”.

Il sindaco, rosso in volto e stremato dai nervi, si fece portare un bicchiere di aranciata per riprendersi.

Nel frattempo, in mezzo alla rotatoria, gli operai sopra l’ape 50, guardarono con sospetto il responsabile che aveva appena asserito di aver trovato il cartello, dato che questo continuava a non palesarsi.

– Scusi, diretto’ – azzardò il più anziano di loro – Ma dove lo ha visto il cartello?

– Non l’ho mica visto! Ho detto così per farli smettere di urlare! Vogliono che il cartello venga rimosso, no? Ecco, facciamo finta di averlo rimosso. Rientriamo in sede.

Gli operai lo guardarono con riverenza e rispetto per il modo in cui aveva preso in mano la situazione e la aveva risolta.

Tornati al palazzo comunale, raccontarono la difficoltà che avevano riscontrato nel rimuovere il cartello, la pazienza che avevano dovuto sfoderare poiché lo stesso era stato attaccato con meticolosa testardaggine, mostrarono anche i graffi alle braccia causati dallo sforzo fatto nello sfilare il segnale che si trovava esattamente sotto il cartello “sano” che indicava la direzione per Osilo. Come prova del lavoro svolto, chiesta dal primo cittadino, mostrarono la foto sullo schermo dello smartphone del responsabile, la quale testimoniava la ritrovata decenza dei segnali direzionali.

Il sindaco si fece inviare subito la foto e la condivise sulla sua pagina Facebook scrivendo:

“Il delinquente che ha profanato la segnaletica stradale cittadina ha avuto solo una breve visibilità. Una squadra di operai è stata inviata sul posto e ha rimosso prontamente l’offensivo cartello, questa operazione è costata qualche centinaia di euro ma l’amministrazione comunale non poteva assolutamente rimandare, ne andava del decoro della città. Sassari è tornata a essere una città sobria che indica la retta via a cittadini, viandanti e turisti, e nessuno più si troverà nella situazione di dover essere indirizzato a quel paese”.

Il commento si concludeva con una serie di hashtag: #sassaricittàbella; #guerraaidelinquenti; #indicazionistradali; #lasassaricheamo.

Sotto, i commenti si sprecavano, c’era chi sosteneva che l’indicazione incriminata doveva essere posizionata davanti al palazzo del comune, o nel salotto del sindaco, c’era chi contestava la cifra spesa e chiedeva di vedere un giustificativo, chi ancora sbraitava asserendo che la città era piena di buche e che quella del segnale era una semplice goliardata a cui era stata data troppa importanza. Alcuni dicevano che la cifra spesa era totalmente spropositata, dato che il cartello era stato affisso con semplici fascette da elettricista e che, quindi, per rimuoverlo, sarebbe stato sufficiente usare un paio di forbici.

Il sindaco, esasperato da quelle critiche, incominciò a sbraitare in sassarese stretto e, approfittando dell’assenza degli amministratori che erano andati a festeggiare il ritrovato status quo della segnaletica con un aperitivo al bar, scrisse sotto l’ultimo insulto “Eja, canta canta!”.

Quel commento scatenò l’ira di molti utenti del social e, in men che non si dica, apparve un’altra foto, una scritta sul muro di un noto palazzo storico di Piazza Tola: “Nicola, canta canta!”.

Il primo cittadino non poteva credere ai suoi occhi, quel social network era davvero ingovernabile, ora anche palazzo D’Elia era stato imbrattato! Prima la fontana di Rosello, poi i cartelli, ora questo! La situazione stava degenerando, perciò decise di convocare una seduta d’urgenza con la presenza delle forze dell’ordine e con i rappresentanti della polizia locale, i quali arrivarono elegantissimi nelle loro nuove divise stile “New York City Police Department”.

Il tema del consiglio fu quello della prevenzione di eventi catastrofici e vandalici. La città doveva essere tutelata e protetta da quello sciame di invasati del web che non perdeva occasione di imbruttire l’antica città turritana, perciò venne subito inviato un commando di tecnici imbianchini specializzati nella rimozione di scritte. In Piazza Tola, però, nella facciata del palazzo storico, non c’era nessuna scritta. Il mistero si infittiva sempre più, fino a quando il responsabile della squadra di operai dell’ape 50 e il responsabile dei tecnici imbianchini si incontrarono.

I due parlarono per quasi mezz’ora dell’accaduto e di quelle spedizioni che avevano dovuto effettuare, senza motivo. Cosa stava succedendo in città?

Contemporaneamente, in un noto gruppo Facebook, era un fiorire di foto che testimoniavano una guerra in atto: erano stati presi di mira anche il Palazzo della Provincia e la statua di Vittorio Emanuele, altre scritte erano comparse in Piazza Fiume, all’ingresso del parcheggio sotterraneo e, soprattutto, la pista ciclabile, nel tratto di Viale Mancini, appariva irrimediabilmente compromessa. Per tutta la lunghezza della strada violacea, infatti, si estendevano le lettere, a caratteri cubitali, che andavano a formare la scritta, sempre la solita, tutta la città era invasa dal motto “Nicola Canta Canta!”.

Furono settimane terribili, i componenti della giunta non riuscivano a spiegarsi il motivo di un simile sfottò, poi il primo cittadino ebbe un crollo nervoso e confessò di essere stato lui l’autore del primo “Canta Canta”. Vi furono le dimissioni in massa di tutti i membri e il sindaco non poté far altro che richiedere l’aiuto dell’altro rappresentante della città, San Nicola, il quale, mosso da un sentimento di commozione e impietosito dall’operato della giunta, fece avere la risposta, tutta terrena, allo stato di degrado a cui la città pareva andare indissolubilmente.

Dopo qualche giorno, un esperto di post produzione fotografica inviò all’indirizzo e-mail del sindaco le foto dei monumenti imbrattati, prima e dopo il lavoro effettuato con Photoshop.

Crash

Crash
di Daniela Piras


Collana Vianesca/Poesia e narrativa
Marco Del Bucchia Editore

“Tutta colpa della crisi” si sente dire quando avvengono fatti insoliti o episodi tragicomici. E in questi anni, in cui la crisi è sempre piú presente, in suo nome si è arrivati a giustificare gesti bizzarri quasi al limite dell’assurdo. Una sola speranza, la stessa che hanno i protagonisti delle undici storie narrate in questo libro: che finisca al piú presto.

Puoi acquistare il libro in libreria o, in alternativa, ordinare la tua copia dal sito dell’Editore Marco Del Bucchia

Copertina di Tommaso Jardella (Pittore e scultore)

ADELSCOTT’S PUB

Anna continuava a camminare.
Passo dopo passo, in una sera grigia
… Andava verso il niente
Nel rientro, una leggera brezza la faceva tremare.
I capelli bagnati, gocciolavano lentamente.
Le sue lacrime, quelle non versate, pesavano, ed erano troppe.
Tornava a casa.
Ritornava a casa.
La sua uscita era finita. E non era successo nulla.
Almeno di tutto ciò che si aspettava e che si era augurata.
Era stato tutto un sogno:
I suoi abbracci, le sue parole, le sue carezze…
Erano tutte Allucinazioni, le più varie.
Eppure, solo la sera prima, sembrava tutto così vero.
Forse anche troppo bello.
Ed invece era stato tutto frutto d’uno spettacolo creato da varie sostanze.
Sensazioni artificiali, togliendo l’alcool, il niente.
Non era lo stesso della sera precedente.
Niente era uguale.
Solo lei era rimasta la stessa.
Aveva voluto credergli, con l’ultima goccia di fiducia che le era rimasta verso il mondo.
E lui?
Era un’altra persona, Adesso.
Non c’era più nessun’atmosfera artefatta, solo i loro respiri che si confondevano.
Una luce fioca attorno a loro, la guardava, con quelli stessi occhi chiari, ma ora quelli occhi erano vuoti, non trasmettevano più niente, la guardavano come se la vedessero per la prima volta.
Le sue mani non la tenevano più stretta, erano lì, come morte, tra le sue mani un bicchiere.
Indifferenza, imbarazzo…Il non sapere che dirsi…
Tanta stupidità…
Anna voltò le spalle, non voleva assistere alla distruzione di quel sogno.
Aveva fatto parte della sua vita, anche se solo per una sera, lo aveva quasi implorato, in quel walzer psichedelico, di non mentirle, non mentirle, mentirle…
Non era lo stesso.
E oramai nemmeno lei.
Corse, voleva fuggire, scappare da quell’insulsa visione.
Arrivò di fronte ad un locale, un insegna “ADELSCOTT’S PUB”. Entrò ed ordinò una birra da portare via.
Una volta tornata per strada, se la versò addosso…
Passanti attoniti la fissavano, povera matta suscitava risate soffocate.
Finita la birra, scagliò la bottiglia contro un muro, mentre si riduceva in frantumi, cominciò a piangere, le sue lacrime si confondevano ora con il liquido torbido che colava lungo il suo viso.
Era finito lì il suo sogno…
Era stato creato dall’alcool.
E nell’alcool doveva terminare.



La Tratta

di Daniela Piras

Era notte, poco traffico, paesaggio classico di una cittadina del Nord-Sardegna; metà primavera.


Mario schiacciò il piede sull’acceleratore: ancora pochi minuti ed avrebbe finito il suo turno di lavoro, poi sarebbe rientrato a casa.
Lo aspettava un modesto appartamento nei pressi del comune, Mario era orgoglioso di abitare di fronte al palazzo comunale: bastava davvero poco per farlo sentire orgoglioso.

Nel suo condominio l’ascensore era inagibile da tempo immemorabile, fece perciò i tre piani a piedi e giunse dinanzi al portone; infilò la chiave nella toppa ed entrò: come ogni sera quella casa era buia e vuota, sul lavello della cucina vi erano dei piatti sporchi della colazione, sui cui avanzi le formiche si erano date da fare per trasportare le briciole. Si potevano definire con tranquillità gli animali domestici di Mario, che oramai si era abituato alla loro silenziosa presenza così come all’umidità della sua “reggia”.

Sulla televisione in bianco e nero stava un poster di Brigitte Bardot. Sicuramente l’unica cosa allegra e colorata di tutto l’appartamento.

Questo era ciò che ritrovava Mario dopo ogni giornata di lavoro: inutile affermare che se avesse avuto di meglio da fare non sarebbe rientrato subito nella sua “dimora”. Ma che altro poteva fare? Aspettava alternative invano da anni. Si tolse la giacca della divisa e la ripose con ingiustificata fierezza perfettamente nell’armadio e guardò la segreteria telefonica: Niente; nessuna chiamata, nessun messaggio, non era di certo una novità, tutte le sere quella segreteria non dava alcun cenno d’utilità, tranne alcune volte in cui trovava chiamate dall’ufficio o messaggi dalla sua unica zia che viveva in una casa di riposo.

Aprì le finestre e si soffermò a guardare giù per le strade: dei ragazzi seduti sul marciapiede sbraitavano bevendo birra, usando gerghi giovanili a lui ignari; alcune macchine e motorini percorrevano la stretta via, chissà dove andavano le persone a quell’ora?

Se lo chiedeva spesso e sapeva però che non avrebbe potuto darsi alcuna risposta: lui era completamente fuori dal mondo, dalla società, viveva solo per lavorare e lavorava per vivere, o meglio, per tirare avanti. E pensare che da bambino aveva tanti sogni, cos’era rimasto? Continuava stanco a cercare uno scopo nella sua vita e vi trovava sempre il nulla.
Eppure voleva dimostrare al mondo che anche lui ESISTEVA, cercava di farlo nelle poche occasioni che gli si presentavano. La mattina si recava in edicola per acquistare il quotidiano provinciale e con uno sguardo a tratti implorante provava a dire qualcosa all’edicolante ma dalla sua bocca riusciva ad emettere solo un monotono “buongiorno” cui l’altro rispondeva distrattamente e con noncuranza un freddo “altrettanto” e perciò la conversazione finiva lì.

Le altre occasioni che gli si presentavano durante l’arco della giornata si concludevano pressappoco alla stessa maniera. Così Mario trascorreva il suo tempo aspettando le 21.

Ormai non si preoccupava neanche più della sua immagine, non che ci fosse molto su cui soffermarsi, i suoi pochi capelli gli donavano un aspetto povero e i suoi occhi sembravano quelli di un cane appena abbandonato, non sopportava quel suo sguardo e a volte davanti allo specchio s’imponeva di assumere un’altra espressione, più vitale, ma tutto ciò che riusciva a ricavarne era un insulso sguardo vuoto apparentemente cattivo. Il suo fisico era medio, media altezza, medio peso, tutto in lui era “medio” e anonimo.

Per Mario il momento più bello della giornata, che era anche l’unico in cui si muoveva, era quando doveva recarsi al lavoro. Snobbato dai colleghi (si era fatto assegnare il turno della sera per incontrarli il meno possibile), guardato con superiorità dal direttore. In ogni modo lui aspettava le 21 con impazienza. Col suo lavoro d’autista incontrava sempre la stessa gente, padri di famiglia che tornavano dal lavoro.

Si sentiva così parte delle loro vite, viveva in loro funzione e si sentiva utile, esagerando si era autoconvinto d’essere insostituibile. Che cosa avrebbero fatto senza di lui? Se lui non fosse passato col pullman (mica un’auto! Guidava addirittura un mezzo pesante!) come ogni giorno alla stessa ora nelle stesse vie? A volte si ritrovava a pensare cose assurde, immaginava cosa poteva succedere ai “suoi” passeggeri se una sera avesse deciso di cambiare itinerario e costruiva così castelli in aria sui tanti percorsi che avrebbe potuto fare col “suo” mezzo, accelerando e trovandosi a 40/50 chilometri fuori rotta! Al solo pensiero si esaltava all’inverosimile ma sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio, l’audacia per commettere una simile PAZZIA.

Che sarebbe stato poi di lui? Del suo lavoro? E se avesse perso il suo posto?

E così, in assenza della propria, continuava ad immedesimarsi nella vita dei suoi passeggeri: una famiglia, un lavoro gratificante, dei figli, delle domeniche da passare con gli amici…che sogni!!

Così trascorreva la sua vita senza novità né altro.

Da un paio di mesi però c’era qualcosa che lo turbava. Sulla sua tratta a volte viaggiava anche una ragazzina sui 18/20 anni che spezzava con il resto: i pensieri di Mario perciò dovevano sfuggire agli schemi soliti. Non sapeva come comportarsi con lei, si sentiva a disagio al solo vederla: sorridente (ai suoi occhi segno di una sfacciataggine estrema), con l’aria distratta, disorganizzata…

Mario vedeva la sua presenza come un’intrusione nella sua vita, non poteva fare a meno di chiedersi cosa c’era dietro quella ragazza: la sua presenza lo irritava parecchio, era come uno squarcio di realtà, quella stessa realtà che continuamente evitava, che s’insinuava prepotentemente nella sua esistenza, faceva parte di un mondo che ormai lui aveva abbandonato sentendosi a disagio, lo stesso mondo che lo aveva escluso.

Egli vedeva quella ragazza come la rappresentanza vivente del rifiuto della società. E gli faceva male. Così la sua giornata veniva interrotta, capovolta, scossa da lei: non era PREVISTA nella sua mente e tutto ciò che non era previsto lo turbava poiché in lui tutto era già previsto da tempo: il suo tragitto, le frasi di circostanza che doveva dire, i suoi soliti orari.
E allora? Che ci faceva lei? A questo lui non riusciva a darsi una risposta e aveva paura di qualcosa, di qualsiasi evento cambiasse la sua rigida routine.

Voleva cancellare quel bagliore di realtà, gli faceva troppo male, non voleva pensare, ormai si era rassegnato: nessun amico nella sua vita, nessuna donna, niente che non facesse parte del suo tranquillo metro quadrato, il suo frammento di mondo legato al resto da un filo: una tratta, per l’appunto.

Col passare del tempo identificò la ragazza con la realtà, la vita, la società che l’aveva escluso e perciò provò a sfogarsi con l’unico contatto esterno, con la ragazza-tramite.

Provava un astio verso di lei e glielo dimostrava in ogni occasione, in quei suoi due minuti di protagonismo cercava di compensare il vuoto di tutta la giornata, cercava una rivalsa sulla sua vita accanendosi contro una sua rappresentante.

Ma tutto ciò finiva non appena la ragazza gli voltava le spalle: Come il mondo, Appunto.   

***


“La Tratta, di Daniela Piras” (2001)
Secondo posto Prosa Giovani – Concorso di Poesia e Prosa in Lingua Italiana “Mariuccia Ruju Dessy”
«La descrizione iniziale di tratto verista suggerisce i segni esistenziali del protagonista. Le parole, essenziali nella cernita, rafforzano il messaggio del banale quotidiano. Monade chiusa ai rumori del mondo, il protagonista recita la parte dell’incerta attesa. Buona la capacità introspettiva che fa di una storia qualunque quella della debolezza umana. Il tema del disagio viene trattato con malinconia e crudo realismo di dolente attualità.»