La Sardegna oltre l’estate

Una mia riflessione che ha trovato spazio sul blog S’Indipendente, blog aperiodico dell’Assemblea Nazionale Sarda, la voce del mondo dell’autodeterminazione sardo.

È da qualche tempo che la Sardegna, consolidata meta di turismo estivo, si sta rivelando capace di attirare vasti flussi di visitatori anche nelle altre stagioni. I motivi sono tanti, e vanno dalla ri-scoperta del patrimonio archeologico, che grazie ai social e al web in generale sta conoscendo una nuova, fortunata epoca, alla riacquisita consapevolezza, complice la pandemia, dell’importanza di godere di ampi spazi naturali e sociali.

Nell’epoca delle new age e delle mille discipline ispirate alla rigenerazione dell’animo, la Sardegna, con i tanti siti storici in cui è possibile recepire intense frequenze positive, è anche al centro di spedizioni in gran stile, con guru spirituale annesso.

Ciò che invece lascia perplessi, in palese contrasto, è quello che appare come un vero e proprio bisogno fisico, che non accenna a diminuire: andarsene dall’isola; scappare non appena possibile. Vale per gli studenti che vogliano costruirsi una carriera, per chi voglia tentare la carta della fortuna all’estero, o anche solo nella penisola italica, per chi non riesce quasi a concepire il fatto di individuare, nella Sardegna, non solo il luogo di nascita, o il luogo “del cuore”, che fa rima con la finta autenticità degli antichi “borghi” tanto in voga, ma il luogo di permanenza principale, della vita vera, quella di tutti i giorni. Quella che prevede un lavoro, una casa, e una routine a misura di comune individuo. Un esodo che anche l’apertura dei suddetti nuovi fronti non è sufficiente a osteggiare. 

Ed è così che assistiamo a una fuga apparentemente ineluttabile, dove tutti – ma proprio tutti – ambiscono a vedere, il più presto possibile, i contorni verdi blu del mare che lambiscono la costa da un oblò aereo. Non ci sarebbe niente di male, se poi queste persone avessero come progetto ultimo quello di ritornare. E invece, assistiamo da tempo a ritorni strategici di intellettuali e artisti che, nel periodo che va da maggio a settembre, varcano i confini dell’isola. Da maggio a settembre la Sardegna esplode, intellettualmente e artisticamente.  

È tutto un pullulare di festival, eventi e laboratori sensoriali. Sovente, tali festival (nello specifico quelli letterari e musicali) vedono alla direzione artistica nomi ritenuti pressoché insindacabili di personaggi che osservano la Sardegna da fuori, e la utilizzano come un grande laboratorio esperienziale all’aperto per realizzare idee nate durante i mesi freddi, a fianco a un termosifone dell’appartamento in periferia di città come Milano, Bologna o Roma. Grandi nomi, profeti in Patria per antonomasia, si accostano a un grande seguito: va da sé. Finanziamenti regionali consolidati e pubblico fedele che non vede l’ora di assistere ai mille eventi che costellano l’estate sarda. Finanche troppi eventi.

Orde di turisti spesso d’impronta alternativa, non si capisce più a cosa però, oltre al buon gusto e alla buona educazione, affollano manifestazioni organizzate nei luoghi più difficili da raggiungere: scalzi e vestiti con impostata sciatteria con l’intento primario di distendersi (e di sbragarsi). Ovunque. In cima alle montagne, sulla riva di fiumi e a ridosso di piscine naturali.

Tutti in preda alla vorace esigenza di rilassarsi, a tutti i costi e con ogni mezzo, per rifarsi la pelle spirituale tramortita da un anno di stress e ansie procurate dalla frenetica esistenza di tutti i giorni, contraddistinta dal rispetto dell’etichetta e delle elementari regole del civil vivere. Quella vita che hanno agognato quando vivevano qui in Sardegna, per quanto riguarda i sardi che tornano nella terra natale durante le ferie. Quella vita che tutti gli altri visitatori sognano di poter interrompere, almeno per poche settimane all’anno, con la speranza che basti a ristabilire ritmi ed equilibri più a misura d’uomo. Considerare la Sardegna meta ideale di vacanze e relax estivi, però, ha delle conseguenze, spesso sottovalutate.  

La maggior parte del pubblico che segue gli eventi più “in” in programma, abita in Sardegna tutto l’anno. La macchina burocratica e logistica necessaria a realizzarli è tenuta in moto da persone che lavorano e vivono in Sardegna tutto l’anno. Il luogo ideale delle vacanze degli altri, in sintesi, esiste di fatto grazie a chi, su quest’isola, ha deciso di vivere, nonostante le alternative possibili.  

E se gli artisti hanno i luoghi dove esibirsi, una volta rientrati per pochi giorni, è grazie a chi, quei luoghi, li ha fatti vivere anche nel periodo delle “vacche magre”. E grazie a chi, quelli spettacoli, è andato a seguirli tutto l’anno, ossia coloro che, questa terra, hanno deciso di viverla davvero, con i suoi pro e i suoi contro. E che, spesso, si sono sentiti ripetere, fino alla nausea, dai navigati esperti del mondo Off Sardinia, che avrebbero fatto meglio a lasciare tutto, ad abbandonare la baracca, a cercare di più: ma sempre e solo altrove. Questa narrazione comincia a stancare e ad ammorbare le orecchie di chi non solo non ha avuto la possibilità, né in passato e né oggi, di fare esperienze di studio/formazione/lavoro fuori, ma anche di chi, pur avendole fatte, vive per convinta scelta in uno dei 377 comuni che formano il tessuto sociale di quest’isola.  

Se tutti coloro che hanno un talento riconosciuto, una carriera di successo, un’affermazione professionale raggiunta, continuano a vivere fuori, per scelta, invece di portare – o riportare – il proprio bagaglio di esperienze a casa, cosa resta? Succede che la Sardegna si svuota progressivamente, con e senza effetto ciambella. Con le conseguenze che questo comporta. Non solo per quanto riguarda il carico umano che deve sopportare durante i mesi più caldi. Perché se è vero che il turismo di massa porta risorse economiche, è anche vero che, per soddisfare la voglia di relax di massa dei turisti agostani, occorrono braccia ed energie tese al massimo dello sforzo, per chi lavora soltanto tre mesi all’anno.  

Sarebbe auspicabile un riequilibrio di flussi umani, di offerte e di prospettive. Per far sì che le possibilità che vengono date ai soliti nomi siano invece alla portata di tutti gli operatori culturali, tutto l’anno. Per ottenere la giusta considerazione da parte della politica, anche, per chi queste strade le percorre anche con il vento e il freddo, trovando spesso delle buche che, magicamente, vengono tappate in prossimità della stagione, perché altrimenti “che brutto biglietto da visita sarebbe, per i turisti!”. Buche reali e buche metaforiche, per inteso. Per chi si è stancato di questa narrazione dominante che ci racconta perennemente dell’uno su mille che ce la fa/ce l’ha fatta/ce la potrebbe fare, andando fuori, e tralasciando i 999 che non hanno i riflettori puntati, ma che costituiscono il fulcro del tessuto urbano e sociale di quest’isola.  

 A tutto ciò, poi, si aggiunge la fatidica frase detta indistintamente da turisti e da ex residenti: “La Sardegna è bellissima, il mio sogno è di venirci/tornarci per la pensione!”. E così, ciò che si configura all’orizzonte non è solo una terra vuota, ma dove a perdersi incantati alla vista di tramonti e sterminate distese verdi, in cui saranno probabilmente visibili ettari ed ettari di pannelli fotovoltaici e pale eoliche all’orizzonte, saranno soltanto pochi vecchi che, allungando lo sguardo in un afflato d’immensa malinconia, e constatando l’assenza di giovani, si ritroveranno immancabilmente a chiedersi: “Era davvero questo, l’unico scenario possibile per quest’isola?” 

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Sulle elezioni (e sui candidati)

In tempi roventi pre appuntamento elettorale siamo, chi più chi meno, sommersi dai cosiddetti santini, immaginette raffigurati volti sorridenti, o strategicamente riflessivi.
Tutti i candidati, all’interno di questo ipotetico mazzo di carte, paiono essere ugualmente validi. Come non ricordarsi dell’amico o dell’amica impegnato/a in questa e quella lotta, anche se solo ricorrendo all’arma dei post selezionati con cura da condividere sui social? L’immagine è tutto, ai tempi d’oggi, o quasi. E come non riconoscere il merito di quel padre di famiglia che, per amore del futuro dei figli, decide di “scendere in campo”? A fianco agli habitué del firmamento simbolico spiccano anche le “new entry”, ovvero uomini e donne di cui non si aveva ricordo, di cui si erano perse le tracce e che paiono tornare alla vita come d’incanto; in base al distretto in cui si candidano si riesce a risalire alla loro provenienza, si capisce dove vivano e dove, probabilmente, hanno sempre vissuto, in una sorta di letargo sociale, prima di sentire la voglia impellente di provare quel brivido, da sfida politica.
E da qui vorrei partire, proprio dal significato della parola “politica”. Per i greci la parola corrisponde al neutro plurale dell’aggettivo politikos e significa “le cose che riguardano la polis, città, cioè comunità umana autosufficiente”.
Le cose che riguardano quindi non solo la ristretta cerchia familiare, ma tutta la città, l’intera comunità di cui si fa parte. La politica era perciò intesa in senso ampiamente positivo, in quanto considerata la forma più alta di educazione dell’uomo. La polis doveva formare l’individuo, per renderlo capace di vivere la vita politica.
Tutte queste accezioni positive, al giorno d’oggi, sembrano essersi perse. Abituati tristemente a vedere i politici come una manica di arrivisti interessati, innamorati di loro stessi e anelanti al potere. In vista di importanti appuntamenti elettorali, come quello del prossimo 24 febbraio in Sardegna, per quanto ci riguarda più da vicino, spesso non sappiamo che decisione prendere, combattuti da un disfattismo e una disillusione che cercano di contrastare una innata voglia di partecipare, in maniera attiva, alla vita politica, sia creando la propria “carta da gioco” da aggiungere alla rosa dei papabili, sia segnando con una croce la propria preferenza.
Tornando allo spirito primitivo che è alla base dell’impegno politico, credo si possa attuare una cernita tra tutti i candidati con un metodo piuttosto semplice. Mi riferisco ai candidati vicino a noi, coloro che conosciamo non solo per averli visti in tv.
Negli anni 80 andava di moda un gioco chiamato “Indovina chi” dove, in base ad elementi riguardanti la fisionomia dei personaggi presenti nel gioco (colore dei capelli, presenza o meno di occhiali, colore degli occhi ecc.) si doveva arrivare a scoprire quale fosse il personaggio della figurina in possesso dell’avversario. Si andava per esclusione, ripetendo ed incrociando le domande in più turni, fino ad eliminare tutte le figure tranne una.
Un gioco simile può essere fatto anche con i candidati, incrociando caratteristiche e peculiarità che rendono ogni candidato, a suo modo, unico.
Le domande, in questo ipotetico gioco di figurine, potrebbero essere: Cosa ha fatto lui/lei in passato? Cosa spinge questa persona a volersi candidare? Quali sono le sue qualità (se ne ha) e quali i suoi progetti? Quali sono i suoi ideali?
Ma il mazzo di carte costituito dai santini viene mescolato troppo in fretta; in mezzo al vortice è molto difficile ricostruire una, seppur approssimativa, “storia politica” del candidato. Dichiarazioni a mo’ di pillole di saggezza, filosofia spicciola, condivisione di ideali meticci e non ben interpretabili. Confusione e ancora confusione, che spesso porta ad una scelta elementare: o non si va a votare, perché convinti di non essere validamente rappresentati, o si vota la “persona”, il “conoscente”, “la brava persona” che però, a volte non ha niente da dire, e da dare, dal punto di vista politico.
Concentrarsi sul programma presentato da questa o quella lista non appare semplice, specie quando questo appare generico e improntato su cardini elementari: politiche di sinistra, politiche di destra, e quando a tali politiche fanno riferimento anche liste minori, dove alla fine quasi si fonde il nome del candidato presidente e quello della lista.
Ho pensato a quale potesse essere un metodo alternativo per semplificare il problema. La politica è un alto impegno sociale, che il candidato intende portare avanti, un impegno gravoso e che esige non solo interesse ma anche sacrificio, e la presenza di virtù etiche.
Ora, ci si potrebbe chiedere: Chi è il candidato? Chi c’è dietro a quella faccia rilassata, falsamente timida, sorridente?
Prendiamo un esempio pratico. Nella mia idea il “Politico” è una persona che, oltre ad interessarsi alla sua vita, al suo metro quadro, alla sua ristretta cerchia, è spinto da una voglia tale di portare avanti i suoi ideali, il suo impegno, una voglia tale di fare qualcosa attivamente per cambiare la società e la vita di tutti in meglio, e non solo la propria.
Eppure c’è chi si candida anche senza averla, una vita. C’è chi si candida perché nella propria vita personale non ha nulla, per riempire un vuoto cosmico. C’è chi farebbe di tutto per darsi una chance pubblica perché nel privato ha fallito pietosamente. Ecco, il candidato ideale, oltre a proporre un progetto politico valido, e un’idea di società nel quale possa riconoscermi, che vorrei cercare di votare, è colui (o colei) che, oltre ad avere una vita piena, ricca di affetti e interessi, ha anche un surplus di energia tale da poterla dedicare agli altri.
È il padre di famiglia che, oltre a curarsi del benessere della moglie, dei figli, del cane e del gatto, oltre ad essere un amico affidabile, una persona gentile e disponibile, è anche la persona che non si gira dall’altra parte quando si tratta di aiutare il prossimo, chiunque esso sia. È colui che si batte per le ingiustizie a prescindere, e non solo quando chi le subisce appartiene al suo stesso schieramento. È colui che, quando viene a sapere che una persona è rimasta senza lavoro a causa di un cambio di strategia aziendale permesso da una riforma emanata da un governo issante la bandiera opposta alle sue idee, non dice “Se l’è cercata, non avrebbe dovuto votarli”. È la persona che si impegna per far funzionare meglio le cose, che si mette in discussione, sempre, che non pensa di avere la verità assoluta in tasca, che non pensa di essere circondato da persone che fanno parte di un livello intellettuale e culturale più basso rispetto a lui. È la persona che fa della sua sensibilità un punto di forza.
Credo che esistano dei valori che vanno al di là degli appuntamenti elettorali. Ma ci sono ancora persone così? Io penso di sì. Per cambiare le cose, la società, per riuscire a vivere in un mondo migliore, dobbiamo fare attenzione a dove posizionare quella croce, perché la politica è fatta dalle persone, e tenerci, per quanto possibile, lontano da narcisisti che altro non fanno che utilizzare la campagna elettorale per dar libero sfogo a tutte le proprie frustrazioni, galvanizzati dalla presenza di un microfono posto sotto al mento da una rete tv locale, e da una piccola cerchia di pubblico che, magari confusa ed annebbiata, ha davvero il sentore che siffatta rabbia possa avere origine da buone intenzioni. 

I movimenti degli anni Settanta in Sardegna in un libro

A Sassari prima presentazione del libro I movimenti degli anni Settanta fra Sardegna e Continente; Ricordando Riccardo Lai [edizioni Condaghes, 2017]

A novembre del 2014 si è svolto, a Sassari, nell’aula magna del Dipartimento di Chimica e Farmacia dell’Università, un convegno sul tema: “Dai movimenti degli anni settanta alla Sardegna di oggi. Ricordando Riccardo Lai”. L’iniziativa era stata promossa ed organizzata dalla Fondazione “Sardinia”, da Legacoop del Nord Sardegna, e da quattro cooperative: Airone, Melis & C., Coopas e Ostricola. Ieri, nella sala della biblioteca comunale di piazza Tola, si è presentato per la prima volta il libro che ha origine da quel convegno, e che si è ulteriormente arricchito grazie a varie testimonianze: I movimenti degli anni Settanta fra Sardegna e Continente; Ricordando Riccardo Lai, a cura di Federico Francioni e di Loredana Rosenkranz, edito da Condaghes. Il testo si pone lo scopo di esplorare la dimensione del territorio e rievocare l´orizzonte, comune a diverse generazioni, dei movimenti che legarono Sassari, la Sardegna e il suo oltre, “il Continente”. L’insieme dei contributi dei quali è composto il volume costituiscono una sorta di “ricordo corale” di ciò che sono stati i movimenti negli anni Settanta in Sardegna. “Un periodo vissuto intensamente, ricco di fermenti culturali” ̶  ricorda Carmen Anolfo, bibliotecaria che ha contribuito al testo con un racconto di testimonianza diretto ̶ “non è un caso che il libro si stia presentando proprio qui, nella biblioteca comunale, questo è stato fortemente voluto poiché questa biblioteca è il punto finale delle lotte di quegli anni. È nel 1979 che è iniziato il lavoro per far sì che si realizzasse quello che oggi è un luogo aperto al pubblico, un luogo della cultura, in cui si tengono conferenze, spettacoli, presentazioni di libri. Le lotte di quegli anni non sono finite ma continuano tutti i giorni, ad esempio contro i tagli al settore della cultura”. Durante la presentazione si sono alternati diversi interventi di chi ha collaborato attraverso racconti e testimonianze a quello che è stato definito da Elisabetta Addis, autrice della postfazione “un libro che mancava, un lavoro che ha permesso di realizzare una memoria condivisa del passato e che serve per poter procedere al futuro”. Una serie di articoli nei quali si racconta una Sardegna che niente aveva da invidiare a quello che succedeva in altre città italiane, pienamente immersa nel flusso culturale che riguardava tutta l’Italia. “La Sardegna non era certo tagliata fuori dal flusso delle idee di rottura e cambiamento che contagiarono il mondo intero, nell’isola era presente un laboratorio in cui, anche nella seconda metà degli anni Settanta, il riflusso è stato contrastato da una persistente volontà partecipativa e oppositiva.” ̶ precisa Federico Francioni.

Loredana Rosenkranz ha precisato che nel libro viene delineata una realtà locale densa. “Il lavoro di cura, al quale si è aggiunto un fattore emotivo, ha permesso di legare tutte le storie presenti con armonia; si possono trovare tutti i mondi, tutte le dimensioni della vita e della società, oltre a quello politico”. Non solo un mero lavoro di testimonianza da dedicare ad una persona che non c’è più, Riccardo Lai, ma anche un importante strumento attraverso il quale conoscere e diffondere quello che è stato. “Non si può ricordare ciò che non si conosce  ̶  afferma l’autrice  ̶  ed è per questo che è necessario raccontare, coinvolgere fasce più ampie e trasmettere così quadri di memoria”. Negli interventi di chi ha partecipato attivamente al testo emerge una Sassari viva culturalmente, dove nascono compagnie teatrali, dove il movimento femminista si batte per conquistare maggiori diritti e una piena parità di genere, dove fiumane di gente sfilano per le vie del centro. Le conseguenze di quelle lotte, seppur perse, sono vive ancora oggi. Mario Bonu, nel suo intervento, ricorda che oggi, in Sardegna, sono presenti oltre cinquanta comitati che si battono ogni giorno, movimenti anticolonialisti, ambientalisti, che lottano contro le speculazioni. “I movimenti che nacquero a Sassari erano integrati con ciò che succedeva in Italia. Fummo spesso in collegamento con altri movimenti del continente. Questi si inabissarono non solo per colpa delle BR, avevano anche chi li voleva rendeva elitari, furono sottoposti a contraddizioni forti. Ciascuno di noi diede il proprio contributo per cambiare la società. Non ci siamo riusciti, è vero, ma non è vero che si è persa la speranza, i movimenti infatti non sono finiti, hanno solo preso altre strade, bisogna partire dalle nostre realtà”, ha sostenuto. In chiusura della interessante presentazione, Loredana Rosenkranz ricorda che “nell’anno 9”, così come definito da Umberto Eco, esisteva la politica non della rivoluzione ma del desiderio, in cui le donne erano per la prima volta soggetto da imitare (e non soggetto che imitava). “Era una generazione che puntava alla felicità, non ci si limitava a fare battaglie per il lavoro, ma si ambiva ad un lavoro che rendesse felici, che piacesse; era una generazione che voleva trovare una strada per comunicare con i media. E ci riuscì, tanto che il movimento degli studenti, con il suo rappresentante Gandalf il Viola, si trovò a sbeffeggiare l’esponente del PCI Massimo d’Alema durante una conferenza stampa presso la sede della Stampa Estera, nel 1977. La politica doveva fare i conti con quel movimento, era colpevole di essere estranea al cambiamento nella società italiana, poiché è vero che se la società cambia, anche la politica cambia”.


“I movimenti degli anni Settanta fra Sardegna e Continente”, edizioni Gondaghes 2017, è disponibile nelle librerie cittadine e acquistabile dal sito della casa editrice (clicca qui).

Un interessante spaccato della nostra storia recente, che ci offre tantissimi spunti su cui riflettere e ci fa interrogare sul ruolo della politica al giorno d’oggi.

Le fiabe dei fratelli Grimm. Chi non le conosce?

Le fiabe dei fratelli Grimm. Chi non le conosce? Sono le storie che ci hanno fatto addormentare da bambini, facendoci sognare mondi fantastici. Eppure, i Grimm non avevano idea di scrivere storielle per bambini. Nei loro scopi c’era quello di raccogliere storie attingendo dalla tradizione orale per fissarle per iscritto e conservare le tradizioni popolari della cultura tedesca. Quello che è avvenuto poi, col tempo, è un lento lavoro di “adattamento” che ha subito varie frasi. Quelle riproposte nell’opera edita da Catartica Edizioni sono le traduzioni che Gramsci ha fatto delle fiabe in carcere, che ci svelano delle storie lontane dalle immagini romantiche e fiabesche del quale abbiamo il ricordo da bambini e che tracciano uno specchio della natura umana e delle sue contraddizioni molto ben delineato. C’è sì spazio per personaggi fantastici, ma velati di crudo realismo, esiste una magia di fondo che mette in luce la contraddizione dell’animo umano e la sua complessità. Un mondo fiabesco ma non idilliaco, dove la cattiveria, l’assenza di empatia, il desiderio di vendetta sono presenti sia tra famigliari che tra antagonisti, dove il “vissero felici e contenti” non è mai per tutti. Il volume contiene non solo le fiabe dei Grimm ma l’integrale produzione di Gramsci per l’infanzia, gli “Apologhi”, i “Racconti torinesi” e i “Racconti di Ghilarza e del carcere”.

A ottant’anni dalla morte di Gramsci abbiamo scelto di rendere omaggio ad uno dei più grandi pensatori sardi del XX secolo che, in queste traduzioni, svela la sua capacità di narratore. Un libro adatto sia ai bambini che agli adulti, per un classico che non accenna a perdere la sua attualità. Ordinabile in libreria.

Leo nei meandri della psicanalisi nell’era del web (di Claudia Zuncheddu)

di Claudia Zuncheddu
 
Leo, il romanzo di Daniela Piras, giovane scrittrice sarda, si fa amare per la freschezza con cui, raccontando una storia di ordinaria amministrazione, stimola riflessioni sulla metamorfosi comportamentale dei giovani nell’era del web. L’argomento è facile preda della psicanalisi.

La storia di Leo si presta a diverse interpretazioni stimolanti, la prima è sotto il profilo patologico. Qualche psicanalista, a mio avviso, seguendo una pista sbagliata attribuisce a Leo un disturbo narcisistico, facendosi sfuggire una figura apparentemente insignificante e marginale nel romanzo: la madre di Leo. Il narcisista patologico è un manipolatore che necessita di una platea dove esibire la grandiosità del proprio ego e dove individuare la vittima a cui creare in modo consapevole dolore.

Leo invece sfugge dal mondo reale, schiva chiunque possa incrociare nelle rare uscite da casa, dalla sua stanza, dal suo mondo virtuale. E’ ossessionato dal più banale incontro con chicchessia, dai genitori che vanno periodicamente a trovarlo con i rifornimenti per la sua sopravvivenza, agli studenti con cui condivide l’appartamento. Meglio non uscire di casa, neppure aprire le finestre, per tuffarsi nel mondo virtuale che gli offre tutto ciò che desidera senza chiedergli in cambio alcuna verità.

Leo di fatto è vittima del narcisismo patologico e paradossalmente subdolo di sua madre che lo ha infragilito e svuotato trasformandolo in contenitore del suo grande ego. Il bambino Leo, per chi l’ha messo al mondo, non deve crescere. Alla sua inadeguatezza nell’infanzia, segue quella nell’adolescenza e nella fase della gioventù. La sintesi di quest’aspetto relazionale tra madre e figlio è espressa nella frase ricorrente “Ometto di mamma…hai mangiato… hai dormito… hai studiato?”. Leo ha 25 anni e tra i tanti mali ha pure una sessualità inevitabilmente soffocata. La fantasia del sesso potrebbe risvegliargli la curiosità per il mondo reale.

Leo falsamente brillante, speciale, con tanti esami sostenuti, ad un tiro di schioppo da una laurea in Scienze naturali, è la condizione irreale su cui converge la complicità tra madre e figlio. E’ con l’aiuto materno che Leo ha costruito le barriere di difesa dal mondo reale, a partire dalla notoria puzza emanata dal suo corpo e creata ad arte perché nessuno gli si avvicini. Solo la madre seppur perfettina è la sola a non cogliere quell’irresistibile fetore da cui tutti fuggono.

In conclusione, Leo non ha voglia di vedere e di manipolare nessuno. E’ solo un bugiardo per necessità che fugge su internet alla ricerca dell’identità negata. Se nel romanzo c’è un personaggio con un disturbo narcisistico di personalità andrebbe ricercato nella figura pallida e sfuggente della madre. Leo potrebbe essere più che narcisista patologico, la vittima del narcisismo materno.

Il romanzo di Daniela Piras stimola il fascino della psicanalisi spostando l’attenzione verso i dintorni dell’attore apparentemente principale e nello stesso tempo spalanca la finestra sul vasto mondo virtuale delle nuove generazioni. La rete può soddisfare bisogni e inibire stimoli. Consente, chiudendo la porta di una camera, di trovare la soluzione, seppur effimera, ai fisiologici conflitti generazionali tra genitori e figli. Non è più necessario fuggire. Eppure è da quei conflitti che si costruiscono le fondamenta dell’emancipazione e dell’indipendenza dell’individuo.

Quel mondo virtuale, può evocare il fascino della Fata Morgana, quel miraggio che nel deserto attrae irresistibilmente il viaggiatore inconsapevole, disorientandolo sino a farlo perdere nelle grandi sabbie dove farlo morire. La scrittrice sarda, con il suo romanzo Leo, stimola la fantasia e le riflessioni del lettore su temi di grande attualità e del quotidiano di tutti. Essa lascia ampi spazi dove avventurarsi persino nei meandri della psicanalisi.

 
 

Sentirsi diversi (di Alessandra Di Nucci)

di Alessandra Di Nucci (Quello che le copertine non dicono)


Daniela Piras è un’autrice di cui ho già avuto il piacere di leggere una sua raccolta, “Crash” (al link la recensione) che si affacciava con occhio critico al decadimento etico e morale del nostro secolo.
Ha mantenuto intatta questa sua spiccata sensibilità anche nel suo ultimo romanzo, intitolato “Leo” in cui focalizza l’attenzione sulla generazione di giovani studenti universitari che si trascinano giorno dopo giorno incapaci di dare un senso alla propria vita o costruire delle prospettive per il futuro.
Leo è un ragazzo di ventidue anni cresciuto nella più completa bambagia, servito e riverito da mamma e papà (di cui odia le visite il quindici di ogni mese) che hanno fatto sempre di tutto per lui, arrivando addirittura a fare la fila all’università per la consegna dei moduli con cui ogni studente è costretto a confrontarsi.
È agorafobico tanto da odiare i giorni in cui non può proprio evitare di uscire dalla sua stanza, è vittima dell’accidia tipica degli scansafatiche, trova addirittura troppo impegnativo assolvere all’igiene mattutino oppure deleterio per la salute del proprio corpo fare una doccia, al punto da emettere una puzza talmente pregnante da far venire la nausea al povero di turno con cui entra per sbaglio in contatto; è asociale tanto da evitare soprattutto i suoi coinquilini cercando di uscire dalla stanza quando loro non ci sono.
Leo è fondamentalmente un bambino il cui corpo ha avuto una normale crescita, a differenza della sua testa rimasta ancora ai suoi eroi dell’infanzia, primi fra tutti Lisa Simpson.
Il nostro protagonista è tanto schivo nella vita reale quando presente e attivo in quella virtuale: commenti fatti di citazioni di autori che nemmeno conosce ma che gli danno un’aria da intellettuale, finti sabati sera con finti commenti scritti da finti profili gestiti da lui, giusto, all’apparenza, per far credere di avere una vita attiva ma che in realtà è indice di una solitudine molto forte, di cui si accorgerà troppo tardi.
Un giorno però la sua routine viene scossa da un tragico omicidio consumatasi al di là delle tende della sua stanzetta (da cui solitamente Leo non si affaccia): nell’appartamento vicino infatti un uomo ha brutalmente accoltellato sua moglie e mentre tutti ne parlano (che sia in televisione o al bar) la vita di Leo, che somatizza lo shock con una notte insonne, continua imperterrita fra internet, fiction di Mediaset e la falsa vita sui social, tanto da non riuscire più a distinguere la realtà dalla fantasia, cosa che avrà dei veri e propri risvolti drammatici sulla sua psiche.
Strutturalmente il romanzo della Piras divide i capitoli per tematiche in base alle componenti più importanti della vita del protagonista: l’università, la casa, Facebook, i coinquilini e tanti altri, con l’intento di accompagnare il lettore nello studio del fenomeno “Leo”: perché Leo è la trasposizione futura delle nuove generazioni, è indice di un forte disagio sociale e psicologico, un ragazzo che difficilmente riesce a farsi capire dagli altri per via delle sue strambe abitudini e delle sue paralizzanti paure ma che avrebbe davvero bisogno di una persona amica.
Un romanzo che fa riflettere soprattutto a tutti quelli abituati a giudicare con molta leggerezza i comportamenti poco conformi a quelli della società.


>>fonte articolo

Daniela Piras presenta il suo libro di racconti “Crash”


Mercoledì, 4 maggio 2016
LA NUOVA SARDEGNA

Daniela Piras presenta il suo libro di racconti “Crash”
Storie ai limiti dell’assurdo, con finali tutt’altro che scontati, sono al centro della raccolta di racconti “Crash” di Daniela Piras, Marco Del Bucchia Editore, che sarà presentato venerdì nella sala conferenze del Centro Culturale San Francesco dalle 18:00. Nata a Sassari dove si è laureata in Scienze della Comunicazione e residente, si presenta al pubblico con undici nuove storie che sono sia racconti sia spunti di riflessione sul tema del momento: la crisi, giustificazione ufficiale per molti, troppi, gesti bizzarri. Ma crisi qui è intesa non solo come crisi economica, bensì anche come difficoltà esistenziale, una crisi che ci si augura finisca al più presto e che in ogni caso stimola una riflessione personale e intima. L’autrice rende bene questa idea nelle pagine del libro, dove si narra anche delle riflessioni che scaturiscono al momento della cosiddetta “resa dei conti”, l’attimo in cui bisogna fare i conti con ciò che si è realmente ottenuto e raggiunto rispetto alle aspettative giovanili. Riflessioni che giungono solitamente a un’età in cui ancora è possibile dare un’indicazione diversa alla propria esistenza: ed è questo il messaggio di speranza che si coglie nella lettura di alcuni racconti di Daniela Piras, dove sovente nelle righe finali giunge quel colpo di scena, il “Crash” appunto, che riserva una sorpresa spiazzante, quasi di rottura.

(B.M.)

Crash, ùndighi contos subra de sa crisi. Ùrtimu libru de Daniela Piras

Una chistione pro nudda alligra ma chi s’autora resessit a tratare cun ironia e finta lebiesa. Sunt istòrias chi pertocant totu nois e chi, in car­chi manera, amus intèndidu a curtzu. Istòrias de pitzinnos chi ant ite fàghere cun sa crisi econò­mica, giòvanos a sa prima isperièntzia chi s’at­zumbant totinduna cun su mundu de su traballu, òmines chi benint inglobados induna situatzione precària a pustis chi s’esserent gosados de una tranchillidade cuntratale pluriennale ma fintzas istòrias chi cun sa crisi tenent unu raportu fora­nu. Difìtzile a classificare custos contos e a los serrare induna narada, cada unu de issos frunit unu puntu de bista diversu subra sos tempos de oe, si faeddat de prospetivas, de progetos, ambit­ziones, rassinnamentos, ispedientos, imbentivas.

In s’isfundu de sas istòrias b’est sa Sardigna, sa tzitade de Tàtari in ue cumparint sas contrarias, sa tiztade minore e sa bidda manna si fundent. Per­sonàgios pintòricos pòpulant sos cuarteris de intro sa bidda, isvàrias categorias de traballadores s’atò­biant a pare, disocupados chircant un’idea chi los giuatat fora dae sa paule in ue cumentzant a s’in­fangare fintzas sas aspiratziones e sos bisos.
Su filu chi ligat custas istòrias contadas est sa crisi e totu cussu chi nde cunsighit. Una situatzione econòmica disastrada chi ponet umpare, comente una valanga, totu sas bisuras de sa vida de sos pro­tagonistas o de chie s’agatat in su caminu issoro, lompende finas a sa vida personale e sentimen­tale. E inoghe si ponet in lughe carchi cosa chi de ispissu benit sutabalidada: sos retroscenas de una vida chi paret tranchilla, sa solitùdine de s’ànima a dae segus de sa seguresa econòmica, sa dificultade seberende unu tempus benidore.
Totu s’imbòligat e si culligat intre atores chi parent no apant nudda in comune. Una sorta de revolutzione suterrània in ue sunt protagonistas comunes tzitadinos, chi cada unu de custos s’iscorrat cun sas difi­cultades de pòdere re­alizare sas ambitziones pròpias.
Unu libru chi si lassat lèghere bene e chi at sa capatzidade de fàghere a rìere e dare a pensare, a pustis.
A finitia de su libru s’at comente su sentidu de non àere tentu totu sas respostas, comente unu film arressadu a meidade, e tando si bi rendet con­tu de su sinnificu de cantu iscritu in sa de bator co­bertinas: “Est totu neghe de sa crisi”, una giustifi­catzione a totu cussu chi non si resessit a ispiegare cun sa rejone.
LOGOSARDIGNA est una revista culturale chi tratat de limba e cultura sarda.
Revista publicada fintzas cun su contributu de s’Assessoradu de s’istrutzione pùblica, Benes culturales , Informatziones, Ispetàculu e Isport (Servìtziu Limba e Cultura Sarda).
LOGOSARDIGNA è una rivista culturale che affronta argomenti riguardanti la lingua e la cultura sarda.
Rivista pubblicata anche con il contributo dell’Assessorato dell’istruzione pubblica, Beni culturali, Informazioni, Spettacolo e Sport. (Servizio Lingua e Cultura Sarda).

Traduzione in lingua italiana:
Crash, undici racconti sulla crisi. Questo, l’ultimo libro di Daniela Piras.
Un argomento tutt’altro che allegro ma che l’autrice riesce a trattare con ironia e finta leggerezza. Sono storie che riguardano tutti noi e che, in qualche modo, abbiamo sentito vicine. Storie di ragazzi alle prese con la crisi economica, giovani alla prima esperienza che hanno un vero e proprio impatto con il fuoco con il mondo del lavoro, uomini che vengono inglobati in una situazione precaria dopo aver goduto di una tranquillità contrattuale pluriennale ma anche storie che con la crisi hanno un rapporto marginale. Difficile classificare questi racconti e racchiuderli in un’unica dicitura, ognuno di loro offre un punto di vista diverso sui tempi attuali, si parla di prospettive, di progetti, ambizioni, rassegnazioni, espedienti, inventiva.
Sullo sfondo delle storie c’è la Sardegna, la città di Sassari di cui appaiono le contraddizioni, la piccola città e il grande paese si fondono. Personaggi pittoreschi popolano i quartieri del centro storico, varie categorie di lavoratori si incontrano, disoccupati cercano un’idea che li porti fuori dalla palude in cui cominciano a infangarsi anche le aspirazioni e i sogni.
Il filo conduttore delle storie raccontate è la crisi e tutto ciò che ha come conseguenza. Una situazione economica disastrosa che coinvolge, come una valanga, tutti gli aspetti della vita dei protagonisti o di chi si incontra nella loro strada, arrivando sino alla vita personale e sentimentale. E qui si mette in luce qualcosa che spesso viene sottovalutato: i retroscena di una vita apparentemente tranquilla, la solitudine dell’anima dietro la sicurezza economica, la difficoltà nel scegliere un futuro.
Tutto si interseca e si collega tra attori che apparentemente non hanno niente in comune. Una sorta di rivoluzione sotterranea di cui sono protagonisti comuni cittadini, ciascuno dei quali si scontra con la difficoltà di poter realizzare le proprie ambizioni.
Un libro scorrevole che ha la capacità di far sorridere e di far pensare, dopo. 
Al termine del libro si ha come la sensazione di non aver avuto tutte le risposte, come un film interrotto a metà, e allora ci si rende conto del significato di quanto scritto in quarta di copertina: “E’ tutta colpa della crisi”, una giustificazione a tutto ciò che non si riesce a spiegare razionalmente.
Redazione Logosardigna
sede: via XXIV maggio, 19 – 07100 Sassari (SS)

Qualche riflessione, a caldo, dopo la lettura di "Crash" di Daniela Piras (di Valentina Olianas)

Il titolo, anzitutto. “Crash” è il titolo del primo degli undici racconti che, come nella migliore tradizione, dà il titolo all’intera raccolta. Pertinente col primo racconto, come ovvio, questo titolo sembra estendere il fragore del “crash” a tutta la sequenza degli altri dieci. Lo “scontro” (letteralmente) si coglie in molti punti, principalmente quello tra realtà e proprie aspettative (Crash, Il cliente, Un cortile in comproprietà), tra realtà “vera” e quella rappresentata dai social (Il pacco) o semplicemente “percepita”, (Subaffitto, L’appeso).

Il tema che sottende questa narrazione è il “lavoro”, soprattutto il lavoro che non c’è: il lavoro come aspirazione, come miraggio, come ossessione. Se questo è il filo conduttore della narrazione, si profilano di volta in volta altri temi legati a quello principale, come il degrado, quello urbano e, talvolta, umano (L’equivoco, Un cortile in comproprietà, Suor Francesca, Crash). Brevi storie, una narrazione lineare, lucida, efficace. Poche righe ed ecco il personaggio, pronto a raccontarsi, a rivelarsi.

Massimiliano e Alessandro, percorsi personali diversi, finiscono per ritrovarsi “nella stessa situazione psicologica ed economica”: il dramma di non trovare un lavoro si tramuta in rabbia, la frustrazione fa sì che prendano corpo, addirittura, propositi criminali, seppure non portati a compimento (Crash). Anche Mirco e Piero hanno alle spalle percorsi personali diversi, hanno studiato, ma esibiscono reciprocamente professioni “immaginarie”, con celato pudore (Il cliente). Nei dialoghi concisi e mai banali rimbalza in varie pagine un “J’accuse” (mi viene da definirlo così), quello di una generazione che oscilla tra la rassegnazione e la rabbia. E dove non c’è ampio spazio per la speranza, consegnata alla frase di rito “la crisi finirà”.

Tra tutti mi sono molto piaciuti “La guerra è finita” e “Il volantino”. Il primo perché descrive in maniera molto efficace le nevrosi che si possono innescare in condizioni di eccessivo stress non solo da lavoro ma “a causa” del lavoro, situazione indotta dal senso di precarietà, per esempio. Il secondo perché, a parte il finale “noir” avvolto nel più fitto mistero, descrive una situazione, come il primo, di emblematica precarietà.

Molte riflessioni si dipanano dopo questa lettura e tante meriterebbero a pieno titolo un’analisi appropriata, sul piano dei diritti, per esempio.
Questi undici racconti mi sono molto piaciuti: per il tema trattato e la scrittura efficace e scorrevole. Per certi versi, il libro, ha un suo profilo sociologico perché descrive realisticamente, aldilà della finzione letteraria, uno spaccato della società dei nostri giorni.


In Sardegna con Daniela Piras

Intervista di “Luoghi d’Autore”

Web-magazine

Nata a Sassari nel 1977, Daniela Piras nutre da sempre una grande passione per la scrittura. Ha al suo attivo una raccolta di scritti dal titolo Parole sugli alberi, il romanzo Village, e a breve uscirà una antologia che comprenderà il racconto Il Volantino, selezionato nel concorso Metro d’Oro, indetto dalle Edizioni Periferia di Cosenza. Oggi andiamo alla scoperta dei suoi luoghi e della sua scrittura.

Il tuo romanzo, Village, si svolge all’interno di un villaggio vacanze in Sardegna. Come nasce l’idea e quanto c’è di autobiografico?
L’idea è nata quando, in una mia esperienza di lavoro all’interno di uno dei tanti villaggi turistici della Sardegna, mi sono resa conto di trovarmi in un mondo parallelo, un mondo dove la realtà era tagliata fuori e dove la finzione e l’allegria di facciata la facevano da padrona. Diverse cose che accadevano là dentro mi stupivano e attiravano la mia curiosità. Ho deciso di raccontarle perché volevo che restasse qualcosa di quel particolare universo di cui molti ignorano l’esistenza. Nel romanzo, ovviamente, c’è qualcosa di autobiografico, la figura della fotografa è quella che più si prestava alla narrazione. “Village”, però, non è assolutamente un diario ma un mix tra realtà, fantasia, riflessioni.

Village affronta una tematica molto attuale, è al tempo stesso una denuncia contro lo scempio ambientale ai danni delle coste ed un invito a ritrovare il senso del viaggio e della scoperta dei luoghi fuori dalla vita di villaggio. Se potessi suggerire un itinerario a chi giunge per la prima volta nei tuoi luoghi cosa suggerisci di visitare e perché?
Il senso di ciascun viaggio, secondo me, è quello della scoperta e della sorpresa. Scoperta in quanto si viaggia per vedere cose diverse da quelle alle quali si è abituati e perché, viaggiando, si riesce a ritrovare la curiosità e la capacità di sorprendersi che magari nella vita di tutti i giorni è assopita dalla routine. Spesso chi viaggia riesce a notare delle cose che chi vive in quei luoghi da sempre non ha mai notato. Un itinerario della Sardegna che consiglierei comprenderebbe non solo il mare e le coste ma anche l’entroterra. Dovendo indicare solo alcune località suggerirei di visitare i paesi a cui sono legata, quindi un itinerario molto personale. Innanzitutto suggerirei di visitare Alghero, cittadina molto particolare in quanto conserva i segni del suo passato catalano; Tempio Pausania e la Gallura in generale, per la sua bellezza che comprende anche l’allegria della sua gente, la particolarità del borgo storico e le sue costruzioni in granito. Nel cuore della Sardegna, suggerirei di visitare Fonni (meglio se in pieno inverno), per vedere le sue montagne innevate e pranzare in uno degli agriturismi dove sono unici i sapori, l’ospitalità della gente e il profumo dei caminetti accesi. Una visita merita il sito archeologico di Monte d’Accoddi, a poca distanza da Porto Torres, uno dei monumenti più importanti della Sardegna preistorica che ospita l’unico esempio di Ziqqurat di tutta Europa, un luogo dove ci si rende conto di essere in un’isola antichissima e con un’importante storia; Altro luogo da vedere, per restare in tema, è il complesso nuragico di Barumini, nella piana della Marmilla, riconosciuto dall’UNESCO come sito patrimonio dell’umanità. Da visitare, inoltre, Bosa, per i colori delle sue case che creano un paesaggio degno di una fiaba e per le sue bellissime spiagge, tra le quali credo sia assolutamente da vedere quella di Cumpultittu; Stintino è una tappa obbligata se si vuole osservare uno dei posti più belli al mondo, senza alcun dubbio: la spiaggia de “La Pelosa”. Da visitare Arbus e le miniere di Montevecchio; la spiaggia di Torre dei Corsari e tutta la Costa Verde. Questi posti sono caratterizzati da una natura molto forte e da paesaggi veramente mozzafiato. Ovviamente di paesi che vale la pena vedere, almeno una volta nella vita, ce ne sono davvero tanti. Altri che consiglierei sono Oristano, città molto importante dal punto di vista storico, poiché è stata capitale del Giudicato di Arborea, e la località marina di “Is Arutas”, unica per via della spiaggia di quarzo rosa che riflette la luce del sole lungo la riva del mare creando degli splendidi giochi di luce; Lollove, piccolo paesino vicino Nuoro dove il tempo pare essersi fermato; Tutta la Costa orientale, in particolare il paese di Dorgali, curato e immerso in una natura millenaria, San Teodoro e la spiaggia di “Capo Coda Cavallo”. Mi fermo qui perché ci sarebbe da scrivere un libro!

Bosa, Ottobre 2014
Foto di Daniela Piras

Leggendo nel tuo blog il post “L’importanza della cultura e dell’arte in ogni campo” ho trovato questo brano molto significativo in cui scrivi: “Parlando nello specifico della Sardegna, visto il risveglio, di cui siamo artefici e partecipi, della nostra identità culturale, considerando che sempre più spesso si fa attenzione alle tradizioni e si cerca di valorizzare gli aspetti storici anche delle piccole comunità, si dovrebbe diffondere la tendenza a riconoscere il valore degli artisti locali e cercare in ogni modo di stimolare la loro produzione artistica creando così opportunità di lavoro concrete a beneficio di tutta la Sardegna”. Cosa suggeriresti di fare concretamente per raggiungere questo obiettivo?
L’obiettivo non è semplice da raggiungere, in quanto è ancora diffuso, purtroppo, il pregiudizio per il quale un artista deve relegare la sua forma espressiva al campo delle passioni e degli hobby.
Credo che tutto il mondo dell’editoria, delle istituzioni pubbliche come la scuola e l’università, delle amministrazioni politiche a tutti i livelli, degli enti preposti ad erogare servizi turistici, avrebbe molto da guadagnare se riuscisse a far sì che gli artisti locali potessero promuovere le loro opere in tutti questi circuiti.
Se nelle scuole, per esempio, oltre a far studiare i grandi artisti noti e stra-noti, si introducesse, all’interno dell’ora di educazione artistica, una sezionededicata agli artisti locali, invitandoli ad intervenire, artisti viventi e in piena produttività, ci guadagnerebbero sia gli studenti, i quali si renderebbero conto che l’arte è tutt’altro che monotonia e nozioni da memorizzare e sia gli artisti, i quali avrebbero la possibilità di farsi conoscere, confrontarsi con bambini e ragazzi che, per antonomasia, sono le persone più curiose. Nello stesso modo credo che le istituzioni politiche, la comunicazione pubblica ufficiale, dovrebbe dare più spazio agli artisti, pubblicizzando i nomi degli autori di quelle belle immagini appese nei cartelloni di eventi culturali e dei quali difficilmente si viene a sapere chi è il fotografo. L’editoria, specie quella locale, dovrebbe avere come base dell’etica professionale quello di citare chi sono gli autori dei pezzi, i fotografi (visto che le immagini non nascono in rete), chi si è occupato di realizzare un particolare logo, anche. Per quanto riguarda gli eventi e le rassegne estive, dedicate per lo più ai turisti, si dovrebbe in qualche modo integrare ciò che rappresenta la tradizione della Sardegna con le forme d’arte contemporanee in modo tale da far capire ai turisti che sì, in Sardegna c’è il folklore, ma esistono anche artisti odierni che riescono sia ad innovare e in qualche modo anche a “svecchiare” la tradizione. Questi artisti concepiscono anche forme d’arte originali e interessanti, le quali rompono di netto con il passato. In particolare esistono interessanti progetti sperimentali nel campo musicale. Tutto questo genererebbe un virtuosismo che avrebbe come risultato quello di far fruire le opere artistiche, le opportunità di lavoro sarebbero la naturale conseguenza di questo circuito, oltre quella di abbattere il muro invisibile che spesso separa gli artisti dal resto della gente.

Scrivi da sempre ma sei anche un’appassionata fotografa, queste due forme d’arte si possono influenzare a vicenda?
Assolutamente sì! Credo che la scrittura e la fotografia siano due modi diversi di vedere il mondo. Frammenti di realtà finiscono, rispettivamente, in un racconto o in una foto. La curiosità è alla base della scrittura, così come la fantasia, e entrambe queste caratteristiche servono per riuscire a cristallizzare sensazioni e immagini che si vogliono portare dentro un libro o in un album di foto. La scrittura e la fotografia sono due forme d’arte molto simili che non possono che influenzarsi. Raccontare delle storie attraverso le immagini è come scrivere un libro: ogni persona riesce a cogliere diversi aspetti, perché tutto è soggettivo.


>> Fonte articolo

Luoghi d’Autore di Emanuela Riverso WEB-MAGAZINE