La Sardegna oltre l’estate

Una mia riflessione che ha trovato spazio sul blog S’Indipendente, blog aperiodico dell’Assemblea Nazionale Sarda, la voce del mondo dell’autodeterminazione sardo.

È da qualche tempo che la Sardegna, consolidata meta di turismo estivo, si sta rivelando capace di attirare vasti flussi di visitatori anche nelle altre stagioni. I motivi sono tanti, e vanno dalla ri-scoperta del patrimonio archeologico, che grazie ai social e al web in generale sta conoscendo una nuova, fortunata epoca, alla riacquisita consapevolezza, complice la pandemia, dell’importanza di godere di ampi spazi naturali e sociali.

Nell’epoca delle new age e delle mille discipline ispirate alla rigenerazione dell’animo, la Sardegna, con i tanti siti storici in cui è possibile recepire intense frequenze positive, è anche al centro di spedizioni in gran stile, con guru spirituale annesso.

Ciò che invece lascia perplessi, in palese contrasto, è quello che appare come un vero e proprio bisogno fisico, che non accenna a diminuire: andarsene dall’isola; scappare non appena possibile. Vale per gli studenti che vogliano costruirsi una carriera, per chi voglia tentare la carta della fortuna all’estero, o anche solo nella penisola italica, per chi non riesce quasi a concepire il fatto di individuare, nella Sardegna, non solo il luogo di nascita, o il luogo “del cuore”, che fa rima con la finta autenticità degli antichi “borghi” tanto in voga, ma il luogo di permanenza principale, della vita vera, quella di tutti i giorni. Quella che prevede un lavoro, una casa, e una routine a misura di comune individuo. Un esodo che anche l’apertura dei suddetti nuovi fronti non è sufficiente a osteggiare. 

Ed è così che assistiamo a una fuga apparentemente ineluttabile, dove tutti – ma proprio tutti – ambiscono a vedere, il più presto possibile, i contorni verdi blu del mare che lambiscono la costa da un oblò aereo. Non ci sarebbe niente di male, se poi queste persone avessero come progetto ultimo quello di ritornare. E invece, assistiamo da tempo a ritorni strategici di intellettuali e artisti che, nel periodo che va da maggio a settembre, varcano i confini dell’isola. Da maggio a settembre la Sardegna esplode, intellettualmente e artisticamente.  

È tutto un pullulare di festival, eventi e laboratori sensoriali. Sovente, tali festival (nello specifico quelli letterari e musicali) vedono alla direzione artistica nomi ritenuti pressoché insindacabili di personaggi che osservano la Sardegna da fuori, e la utilizzano come un grande laboratorio esperienziale all’aperto per realizzare idee nate durante i mesi freddi, a fianco a un termosifone dell’appartamento in periferia di città come Milano, Bologna o Roma. Grandi nomi, profeti in Patria per antonomasia, si accostano a un grande seguito: va da sé. Finanziamenti regionali consolidati e pubblico fedele che non vede l’ora di assistere ai mille eventi che costellano l’estate sarda. Finanche troppi eventi.

Orde di turisti spesso d’impronta alternativa, non si capisce più a cosa però, oltre al buon gusto e alla buona educazione, affollano manifestazioni organizzate nei luoghi più difficili da raggiungere: scalzi e vestiti con impostata sciatteria con l’intento primario di distendersi (e di sbragarsi). Ovunque. In cima alle montagne, sulla riva di fiumi e a ridosso di piscine naturali.

Tutti in preda alla vorace esigenza di rilassarsi, a tutti i costi e con ogni mezzo, per rifarsi la pelle spirituale tramortita da un anno di stress e ansie procurate dalla frenetica esistenza di tutti i giorni, contraddistinta dal rispetto dell’etichetta e delle elementari regole del civil vivere. Quella vita che hanno agognato quando vivevano qui in Sardegna, per quanto riguarda i sardi che tornano nella terra natale durante le ferie. Quella vita che tutti gli altri visitatori sognano di poter interrompere, almeno per poche settimane all’anno, con la speranza che basti a ristabilire ritmi ed equilibri più a misura d’uomo. Considerare la Sardegna meta ideale di vacanze e relax estivi, però, ha delle conseguenze, spesso sottovalutate.  

La maggior parte del pubblico che segue gli eventi più “in” in programma, abita in Sardegna tutto l’anno. La macchina burocratica e logistica necessaria a realizzarli è tenuta in moto da persone che lavorano e vivono in Sardegna tutto l’anno. Il luogo ideale delle vacanze degli altri, in sintesi, esiste di fatto grazie a chi, su quest’isola, ha deciso di vivere, nonostante le alternative possibili.  

E se gli artisti hanno i luoghi dove esibirsi, una volta rientrati per pochi giorni, è grazie a chi, quei luoghi, li ha fatti vivere anche nel periodo delle “vacche magre”. E grazie a chi, quelli spettacoli, è andato a seguirli tutto l’anno, ossia coloro che, questa terra, hanno deciso di viverla davvero, con i suoi pro e i suoi contro. E che, spesso, si sono sentiti ripetere, fino alla nausea, dai navigati esperti del mondo Off Sardinia, che avrebbero fatto meglio a lasciare tutto, ad abbandonare la baracca, a cercare di più: ma sempre e solo altrove. Questa narrazione comincia a stancare e ad ammorbare le orecchie di chi non solo non ha avuto la possibilità, né in passato e né oggi, di fare esperienze di studio/formazione/lavoro fuori, ma anche di chi, pur avendole fatte, vive per convinta scelta in uno dei 377 comuni che formano il tessuto sociale di quest’isola.  

Se tutti coloro che hanno un talento riconosciuto, una carriera di successo, un’affermazione professionale raggiunta, continuano a vivere fuori, per scelta, invece di portare – o riportare – il proprio bagaglio di esperienze a casa, cosa resta? Succede che la Sardegna si svuota progressivamente, con e senza effetto ciambella. Con le conseguenze che questo comporta. Non solo per quanto riguarda il carico umano che deve sopportare durante i mesi più caldi. Perché se è vero che il turismo di massa porta risorse economiche, è anche vero che, per soddisfare la voglia di relax di massa dei turisti agostani, occorrono braccia ed energie tese al massimo dello sforzo, per chi lavora soltanto tre mesi all’anno.  

Sarebbe auspicabile un riequilibrio di flussi umani, di offerte e di prospettive. Per far sì che le possibilità che vengono date ai soliti nomi siano invece alla portata di tutti gli operatori culturali, tutto l’anno. Per ottenere la giusta considerazione da parte della politica, anche, per chi queste strade le percorre anche con il vento e il freddo, trovando spesso delle buche che, magicamente, vengono tappate in prossimità della stagione, perché altrimenti “che brutto biglietto da visita sarebbe, per i turisti!”. Buche reali e buche metaforiche, per inteso. Per chi si è stancato di questa narrazione dominante che ci racconta perennemente dell’uno su mille che ce la fa/ce l’ha fatta/ce la potrebbe fare, andando fuori, e tralasciando i 999 che non hanno i riflettori puntati, ma che costituiscono il fulcro del tessuto urbano e sociale di quest’isola.  

 A tutto ciò, poi, si aggiunge la fatidica frase detta indistintamente da turisti e da ex residenti: “La Sardegna è bellissima, il mio sogno è di venirci/tornarci per la pensione!”. E così, ciò che si configura all’orizzonte non è solo una terra vuota, ma dove a perdersi incantati alla vista di tramonti e sterminate distese verdi, in cui saranno probabilmente visibili ettari ed ettari di pannelli fotovoltaici e pale eoliche all’orizzonte, saranno soltanto pochi vecchi che, allungando lo sguardo in un afflato d’immensa malinconia, e constatando l’assenza di giovani, si ritroveranno immancabilmente a chiedersi: “Era davvero questo, l’unico scenario possibile per quest’isola?” 

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Un modo semplice a Villacidro – presentazione e dibattito sul tema della violenza sulle donne

Domani sarò a Villacidro a parlare del mio romanzo “Un modo semplice”. Oggi è la giornata internazionale per combattere la violenza sulle donne. Una giornata che serve per parlare di temi che necessitano di essere affrontati ogni giorno. Noi ne parleremo domani. Cercheremo di contribuire, attraverso la discussione, a capire le dinamiche di un fenomeno complesso. Partiremo dal romanzo, da una storia. Perché tutti i femminicidi partono da una storia: d’amore, di complicità, di affinità. Poi, qualcosa cambia.

Della ristorazione. Ovvero, come un pan bauletto si trasforma in una bruschetta

Nell’epoca in cui gli chef sono i nuovi VIP, tutto sembra concesso. Basta usare un linguaggio internazionale e… voilà! La fregatura è servita (senza tovagliato)

Il Pan Bauletto, specialità industriale del Mulino Bianco (disponibile anche in versione discount)

Un tempo era il paesaggio, la vista, l’accuratezza della sala, il colpo d’occhio di ricercati arredi e tovagliato. Oggi, è la Location. Parola che contiene – e permette – tutto. Ed è così che basta una lussuosa location, composta da uno spazio all’aperto ai piedi di un massiccio montuoso o a pochi passi dalla spiaggia, per potersi permettere prezzi da capogiro accostati a servizi evanescenti. Passati i tempi in cui la tappa al ristorante era un avvenimento raro concesso ai più facoltosi, oggi tutti noi, con un po’ di buona volontà, e una gran dose di spirito di avventura e sprezzo del rischio, ogni tanto ci rechiamo nelle fatidiche location proposte da sconosciuti chef. E qui un piccolo appunto: se applicando il buon senso non è lecito far pagare un libro di un esordiente una cifra superiore ai quindici euro, viene da chiedersi – a noi menti leggermente polemiche – come mai è invece assodato, accettato e considerato normale pagare 17 euro per un piatto di spaghetti di cui non si conosce il nome dello chef esecutore. Sarebbe corretto vedere il cv di tale figura, e decidere in seguito se vale la pena o meno pagare cifre superiori al deca per gustare una sua “creazione”. Parole come “creazione culinaria” e “gourmet” meritano un appunto a parte: spesso sono espedienti per giustificare prezzi validi per un ristorante 5 stelle Michelin. La location, insieme alla portata gourmet e a un buon punteggio su TripAdvisor, sono finiti per essere gli elementi per capire se in un ristorante si mangi decentemente o meno. E spesso sono elementi soggettivi, in altre parole: ingannevoli. E si arriva al punto in cui per mettere insieme una semplice, elementare bruschetta, si utilizza il pan bauletto (senz’olio e senza sale), ricoperto di pomodorini pachino tagliati male (con residuo finale del picciolo) e rucola (formato busta Lidl) in abbondanza. Alla modica cifra di 5 euro. CINQUE euro per una fetta di pan bauletto posto sulla griglia un minuto – e giunto freddo al tavolo – ricoperto di una pioggia di pomodorini e rucola. Sale: non pervenuto. Olio: non pervenuto. Benvenuti nell’epoca del fast food, delle stupende location, del rapporto qualità/prezzo spiegato, a quanto pare inutilmente, da Alessandro Borghese (il quale impallidirebbe a vedere certi cestini di pane in finto vimini ripieni di baghette – sempre formato discount – precotte e surgelate appena scaldate). Qualcosa di positivo, le trasmissioni di Borghese, lo hanno dato a noi consumatori: il coraggio di restituire un piatto improponibile, ché la vergogna non è lamentarsi seduti in un’elegante location, ma la vergogna è di chi, quel piatto imbarazzante, è riuscito a farlo arrivare dalla cucina al tavolo del cliente, senza remore. Dell’ex garzone divenuto, per caso, – a causa della famigerata difficoltà di reperire personale qualificato – uno chef. Una tattica c’è, per evitare fregature: prima di accomodarsi a un tavolo, dichiarare di essere un critico di Gambero Rosso. E aspettare di vedere cosa arriva al cospetto, c’è da scommettere che non si verrà trattati come un semplice, sventurato, commensale.

2021: Odissea nei social e nello spazio (chiuso)

Ogni anno che comincia porta con sé buoni propositi, specie quando segue un anno nefasto con al centro una pandemia. Nuovi obiettivi, nuove consapevolezze, nuovi traguardi quindi, anche se tutti sono soggetti a limitazioni non solo fisiche. Archiviato l’auspicato e illusorio miglioramento indotto dal virus regale, si volta pagina e si guarda all’uno finale come a una buona possibilità di ripartenza. La prima cosa che salta all’occhio, legata ai consueti auguri e alle riflessioni scaturite dal nuovo anno, è quanto il potere della comunicazione via social stia crescendo, portando a far emergere intensamente quelli che prima erano atti e fatti privati: tutto è in vetrina. Noi siamo in vetrina come lo sono le nostre attività, i nostri interessi, i nostri oggetti, i nostri animali e le nostre abitazioni; in poche parole: come lo è tutta la nostra vita. E questa vetrina comincia ad essere sempre più stretta. Ci si spinge per trovarvi un posto per esporsi. Tentativi di utilizzare alcuni canali per far girare notizie culturali e di approfondimento sono da ammirare per la loro resistenza, autentiche perle in un mare di sovraesposizione narcisistica generale. Le bacheche dei social sembrano la distorsione di una foto di classe. Tutti vicini, in posa, davanti al fotografo; al posto di dire “cheese” con discrezione, però, si inizia a saltare restando fermi sul posto, al solo scopo di occupare più spazio nello scatto. Assistiamo a vere e proprie vite parallele, sottoposte a restyling e filtri, inquadrature strategiche volte a mettere in evidenza solo alcuni aspetti mirati. Stride rovinosamente con questo mondo fittizio l’elenco dei prodotti pubblicizzati: ansiolitici generici, infusi sedativi per favorire il sonno, compresse per evitare i risvegli notturni, pasti sostitutivi per eliminare i chili di troppo, creme antirughe miracolose. Sembrano davvero due mondi paralleli, quello dei social e quello della pubblicità. Se siamo tutti bellissimi, magri, allegri e acculturati come è possibile che si abbia bisogno di prodotti farmacologici finanche per riuscire a dormire otto ore di fila? La solitudine che emerge da questa esposizione virtuale limitata ma potenzialmente universale è davvero preoccupante e connessa al consumismo sfrenato. Essere al centro, ottenere consensi, like, possedere cose ed esporle affinché anche le “cose”, ormai prolungamento di sé e del proprio corpo, possano collezionare apprezzamenti e approvazione. “Andrà tutto bene”, recitava lo slogan della scorsa primavera, tentativo di conforto simile al senso dato dalle diverse emoticon presenti nelle piattaforme di condivisione: “Mi piace”, “Ti abbraccio”, “Mi dispiace”, “Ti voglio bene”. Rassicurazioni che lasciano il tempo che trovano, messe in discussione dall’alto tasso di insicurezza che dilaga; basta una doppia spunta blu seguita dal silenzio per far vacillare instabili certezze. Meritevoli di attenzioni lo dovremmo essere tutti, ma sono le attenzioni assenti nella vita reale che ci fanno desiderare di averne nella vita virtuale, e la compensazione è impossibile. Credo che tra qualche anno leggeremo di questo nei libri di sociologia: ciò che accade verrà analizzato, i nostri profili social verranno sezionati e tradotti in numeri e percentuali. Sperando che quest’isteria collettiva non ci porti allo sfaldamento della personalità e che si riesca a trovare un equilibrio tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe tanto essere (ricchi, belli, intelligenti, famosi).

Genova, centro storico