I miei articoli per Other Souls Magazine

I miei articoli per Other Souls Magazine
di Daniela Piras
La prima volta che lo vidi era estate inoltrata, il vento caldo non riusciva a smorzare l’aria rovente e il sole faceva scintillare le rocce chiare di granito che s’intravedevano in lontananza. Trasudava dentro alla divisa blu, appoggiato al cancello di fronte all’ingresso della Banca di Credito Sardo. Non era bello, né particolarmente affascinante; capelli scuri cortissimi, occhi scuri, altezza nella media e sguardo distratto. Quello che mi colpì maggiormente, inutile negarlo, fu la divisa. Quel blu scuro così ordinato, quelle stellette sistemate in cerchio ai lati delle spalle, il cinturone e la pistola.
La prima volta che la vidi era estate inoltrata. Mi ricordo che c’era un caldo soffocante. Avevamo ancora le divise autunnali, quelle con le maniche lunghe. Era il mio primo giorno di lavoro alla banca. Ancora oggi mi chiedo come mai avessero sentito la necessità di far vigilare l’ingresso della banca in un paesino così tranquillo dove, a memoria di uomo, non si ricordava una sola rapina. Ad ogni modo quei turni erano devastanti, mi toccava fare ogni giorno centoquaranta chilometri, tra andata e ritorno. Mi alzavo la mattina alle sei, per essere al lavoro alle otto e andavo via alle tre. Imprecavo contro quel caldo afoso e sognavo mi piazzassero un ventilatore proprio lì davanti. La tranquillità, nel nostro lavoro, fa spesso coppia con la noia. Contavo i minuti e poi le ore, e il tempo non passava mai.
Lo sapevo, lo sapevo io che quella avrebbe finito per rovinarlo!
Parasite – Un film del regista sudcoreano Bong Joon Ho
Una linea di demarcazione che separa due mondi: da un lato si trova il benessere, la gratificazione, la stabilità, l’equilibrio, la cultura e la sensibilità: dall’altro invece la povertà, sia materiale che intellettuale, il prevalere degli istinti primari, l’insofferenza e l’assenza di prospettive.
Per varcare questa linea serve un obiettivo: un sogno da realizzare, un’ideale a cui aspirare, un progetto di vita. In una parola: un piano. «Qual è il tuo piano?», chiede uno dei protagonisti del pluripremiato film “Parasite” (Vincitore, tra l’altro, della Palma d’oro al Festival di Cannes 2019; primo film sudcoreano ad aggiudicarsi tale titolo). È l’interrogativo che buca lo schermo e raggiunge gli spettatori. La risposta è la chiave stessa del film, il quale parte da una storia ordinaria di gente che “tira a campare” per arrivare a toccare concetti ben più profondi. È il modo in cui si decide come provare ad oltrepassare l’immaginaria ma solidissima linea che separa i due opposti stati che rappresenta la differenza. I poveri sono greti di spirito perché poveri? O giacciono in una condizione di miseria proprio per colpa della loro povertà di spirito? I ricchi sono gentili in quanto tali, o hanno insita nella loro natura la nobiltà d’animo e la gentilezza? Di etica, di scelta, di valori, del senso vero e proprio della vita e dei sentimenti: di questi fattori il regista offre un’interessante lettura. È il rovescio della medaglia che tiene incollati allo schermo; una medaglia che diventa sfera, dai contorni labili. Un film costruito come un congegno perfetto che offre un quadro elementare ma al contempo complesso di ciò che è la realtà. Un puzzle dove si incastrano i sentimenti più contrastanti. Una serie di scene che risultano familiari sembrano disegnare esattamente i due modi essenziali di essere al mondo: dalla parte dei vincenti o dalla parte dei perdenti. I buoni e i cattivi. Gli elevati e i mediocri. Ma è solo l’inizio; in seguito il film si evolve e prende una piega per niente scontata. Protagonisti e antagonisti si confondono, come lo sfondo del quadro che abitano. È la logica della vita, che viene analizzata. Del destino, di quanto è scritto o totalmente affidato al caso. E alla fine l’interrogativo rimane sospeso e ci invita a trovare una risposta: Qual è il tuo piano?
Quanto può incidere il fato nelle dinamiche di un incontro? Quanto può essere attribuito all’eccessiva empatia, alla voglia di sperimentare nuove emozioni, alla necessità di evadere dalla routine? È la domanda implicita alla quale i due autori di “Oblio”, Vito Introna e Francesca Panzacchi, rispondono nel corso del loro romanzo. I due protagonisti, Eleonora e Alessandro, incontratisi su un treno durante una tratta notturna, dopo un primo momento di diffidenza reciproca, mettono a nudo le proprie fragilità e condividono la loro comune difficoltà di vivere. È nelle pieghe rese visibili da tale esposizione che s’insinua il fascino dell’insolito, il quale fa precipitare Eleonora in un turbine di emozioni che la donna spera, consapevolmente o meno, la possano salvare dall’assedio del tedio che caratterizza la sua vita troppo normale, dove non bastano più gli intermezzi extra coniugali a renderla più interessante. Il romanzo procede volgendo nel thriller, con una serie di eventi che rendono il lettore letteralmente incollato alle pagine. Ma “Oblio” è anche molto altro: apre la riflessione su ciò che comporta seguire delle scelte in campo sentimentale, su ciò che davvero ha importanza e su cosa non ne abbia abbastanza, su quanto capiti di desiderare il contrario di quello che si ha, in una sorta di circolo dell’insoddisfazione perenne. E viene da chiedersi se Eleonora, emblema della donna benestante e annoiata, non abbia indirizzato il suo istinto (o impulso che dir si voglia), mettendo in atto azioni precise, spinta dal peso di una quotidianità che a volte è più intollerabile di ciò che si pensa. Alessandro non è che una pedina nelle sue mani, per buona parte del libro, perché rappresenta quel marcio e quel male di vivere che ancora oggi affascina più che spaventare. Alessandro riesce a smuovere le emozioni più stagnanti di Eleonora, ad entrare in sintonia con la parte più a rischio di ognuno, ovvero quella più intima e profonda, che solitamente si tende a nascondere sotto chili di ansiolitici emotivi. Eleonora, allo stesso tempo, fa emergere qualche sottile speranza di una possibile redenzione in Alessandro, uomo dall’equilibrio precario e dalla mente contorta.
È un romanzo che si può definire come un gioco delle parti, dove la parte psicologica ha la stessa importanza di quella volta all’azione: un libro dove incide molto il substrato emotivo del lettore, perché la chiave di lettura che se ne può dare non è né scontata, né preimpostata.
“Oblio”, edito dalla casa editrice Brè di Treviso nel febbraio di quest’anno, è recentemente stato selezionato nell’ambito del secondo concorso letterario “Tre colori 2020” per la categoria “narrativa lunga (bianco avorio)” indetto dall’Associazione Culturale Cinema e Società di Lenola (LT).
La tv del 2020, visionata esclusivamente da chi non è a conoscenza di altri strumenti di svago o da chi si trova temporaneamente impossibilitato ad usufruirne, come nel caso di chi scrive, è un palco dove gli attori sembra non facciano altro che cercare di intimorire chi li guarda.
Durante le proiezioni mattutine, si passa da trasmissioni informative con ambizioni di intrattenimento in cui chi conduce cerca di rendere interessanti le manovre da compiere per sanificare l’auto, a cui seguono malcapitati che raccontano come gli sono stati sottratti dal conto corrente 10000 euro tramite una telefonata di un hacker che ha fatto installare loro una app per ottenere il controllo in remoto dei loro smartphone. Denunciare tramite la tv le truffe di cui si è vittima non serve ad altro che a far conoscere il rischio a chi ascolta, rendendo la vittima celebre per pochi minuti. La frase che si sente più spesso è “speravamo di poterle dare notizie migliori”.
Facendo zapping ci si imbatte nei talk show più vari che sembrano essere proiettati direttamente dalle corsie degli ospedali. Mascherine chirurgiche, camici, microfoni a distanza, notizie che anticipano di poco l’apocalisse. Tutto va a rotoli, e tutti provano a decantare ricette per uscire dalla melma: politici, “opinionisti”, conduttori, medici, “esperti di”(?). Per non rischiare di venire sopraffatti dall’angoscia bisogna cambiare canale e cercare relax e conforto in canali come il “9” che ci delizia con programmi come “Chi diavolo ho sposato?” o “Ho vissuto con un killer”. Il lato romanzato di simili tragedie e drammi familiari ce li fa apparire più digeribili dei talk show su citati.
Nel pomeriggio Mamma Rai ci viene incontro con programmi che hanno l’ambire di sopperire alla chiusura delle scuole e che in qualche modo integrano la dad. Imbattersi in certi monologhi fa rimpiangere la più problematica delle scuole medie. Lezioni, ad esempio, di antropologi che ci narrano le vicende delle sirene, a partire dal mito per arrivare al significato oggi attribuito a questo termine. Il progetto sarebbe anche interessante, se non fosse che la docente legge ogni parola che dice, perciò appare con gli occhi vaneggianti, persi ad inseguire lemmi che passano troppo lesti su uno schermo. A questo punto sarebbe stato meglio prendere spunto da Maria Giovanna Elmi, la “signorina buonasera” , e cercare di imparare la sua tecnica. Considerando che agli studenti solitamente viene chiesta una capacità di memorizzare testi e di esposizione molto maggiore. La scritta sul palmo con gli appunti sarebbe stato un gesto apprezzato.
Il picco si raggiunge con programmi ch’erano in voga negli anni ’80, come Geo, e che hanno attraversato indenni i decenni, senza revisionare nulla del consolidato format. Contenuti interessanti ma di un effetto soporifero paragonabile soltanto alle più potenti tisane alla valeriana. Mucche riunite in mandrie che si apprestano a raggiungere il punto della montagna in cui trascorrere la notte, durante la transumanza. La voce narrante concilia un relax profondo, il prete della piccola cittadina montana ci racconta le vicende dei partigiani… è un attimo. Il cuscino cede e il divano ci accoglie con indulgenza (e un po’ di pietà). Ci si sveglia che è l’ora de “l’Eredità”.
Il pilastro portante dei quiz Rai ci accoglie in uno studio vuoto con i concorrenti che sembrano usciti da barattoli di naftalina. Ognuno incarna un personaggio, immacolato e chiaro: la studentessa modello, l’ingegnere brillante, la casalinga con la passione della cucina, il ragazzo studioso che vuole fare lo scrittore. Domande di cultura si alternano a quesiti storici e di cultura generale. Curiosità/Storia/Geografia… e gli “ereditieri” si impegnano sfidando l’ultima frazione di secondo valida. Insinna, matador di questo circo, tira avanti con battute stantie, infarcite con appelli a donare, donare e ancora donare, per questa o quest’altra associazione, cinque, dieci euro, quello che si può. Donare per far andare avanti la ricerca scientifica. Ma è quando si pensa di aver assistito al peggio che ci rende conto che si può sempre scavare, raggiunto il fondo. È il momento in cui prendono parola le “professoresse”: ragazze che hanno da pochi mesi abbandonato l’adolescenza, ben truccate e dal sorriso curato, che ci deliziano con spiegazioni di fatti e termini di cui ignorano palesemente il significato. Insinna le ringrazia per il modo in cui elargiscono a noi pubblico a casa (poiché è assente quello in studio) pillole di sapienza. Ogni volta che vengono apostrofate “professoresse” un laureato in Lettere tenta di farsi fuori ingoiando il telecomando.
E arriva l’ora del Tg. Un’unica notizia seguita da notizie secondarie sempre sullo stesso tema. In parlamento non si discute d’altro. Nelle strade non si parla d’altro. E gli inviati intervistano passanti che dichiarano che sì, è dura, e che l’aperitivo prima si faceva alle otto e che ora si fa alle cinque. All’ora del tè. Esattamente lo stesso tè che io continuo a maledire e a cui addosso le colpe del mio stato di veglia. Perché dopo una giornata così ci si può solo augurare di prendere sonno alle 21.00, in modo da farla finire il più presto possibile.
Vado a letto rimpiangendo i tempi di Bim Bum Bam e chiedendomi dove sono andati a finire quei programmi che tempo addietro, ai tempi dell’università, non riuscivo a seguire come avrei voluto, perché la precedenza era sempre data allo studio. Mi passano davanti come fantasmi, e mi chiedo se mai siano davvero esistiti Lucarelli, Minoli, Massimo Manfredi…
Un ultimo malaugurio rivolto alla Telecom e al guasto tecnico che impedisce a Santa Internet di funzionare accompagna il mio tentativo di inabissarmi nel mondo dei sogni (e degli incubi). Domani è un altro giorno. Ma la tv sarà sempre la stessa, purtroppo.
Presentazione di “Un modo semplice” . Relatrice: Domenica Azzena. Sax tenore: Daniele Ricciu – Danyart
Riporto un articolo scritto da Emanuela Riverso, curatrice del Magazine del Turismo Letterario “Luoghi d’autore”
Flavia e Manuel, i protagonisti dell’ultimo romanzo di Daniela Piras, Un modo semplice (pubblicato da Talos Edizioni), sono due studenti universitari che, nelle pagine iniziali del libro, ascoltano insieme la canzone Trovami un modo semplice per uscirne dei Verdena. Attraverso la stesura di un diario, i due studenti raccontano il loro incontro, l’amore, la storia che si frantuma, la persecuzione dell’uno nei confronti dell’altra. Saper chiedere scusa e saper perdonare sono i difficili passi che i due giovani devono imparare a compiere. Il tutto avviene sullo sfondo di una antica città universitaria, Urbino, definita dai due studenti la città ideale in quel momento della loro vita.
Proprio l’ambientazione di Un Modo semplice costituisce un’importante novità: le vicende nei lavori precedenti di Daniela Piras si svolgono sempre in Sardegna (sebbene nel romanzo Leo il luogo non sia determinante per lo sviluppo della trama) ma questa volta la scrittrice ha sentito il bisogno di ricorrere principalmente alla città di Urbino, «la città ferma nel tempo, sempre uguale a se stessa, cristallizzata e perfetta». Tutti aggettivi che non appartengono ai due protagonisti del suo romanzo, i quali invece cambiano, crescono, e di certo non sono perfetti.
Eppure possiamo rintracciare delle corrispondenze perché la città marchigiana sembra la proiezione di uno stato d’animo ben definito, di cui Flavia prende quasi improvvisamente coscienza. Un mattino, mentre Manuel ancora dorme, la giovane esce a fare due passi. Nel suo diario racconta: «osservai la cittadina come se fosse la prima volta; i colori delle strade, i muri, quelle salite che mi erano familiari, alle quali ero affezionata ma che, allo stesso tempo, cominciavano a starmi strette. Una sensazione difficile da spiegare con le parole. Era la mia città, in quel momento, e la adoravo. Allo stesso tempo, però, avevo la sensazione che mi avesse dato tutto quello che poteva, esattamente come Manuel, e che fosse arrivato il tempo di cambiare. Mi sembrava che mi fosse restata soltanto la possibilità di girare in tondo, di rivivere le stesse cose che avevo già vissuto, come se le esperienze di vita seguissero le stesse strade».
Dal momento in cui Flavia raggiunge questa consapevolezza tutto precipita, cambia in maniera radicale. Daniela Piras pone l’accento, come sempre accade nei suoi lavori, su alcuni aspetti di un problema reale. Qui l’autrice tratta i difficili temi della violenza psicologica e fisica, dello stalking. Registrando gli stati d’animo dei personaggi, esplorati nel profondo, l’autrice, con una scrittura nitida ed elegante, ci regala il punto di vista dei due protagonisti, garantendo un equilibrio delicato e per nulla scontato. L’autrice non giudica Flavia e Manuel, non sostiene l’uno o l’altra; lascia che i due protagonisti si raccontino e affida al lettore la libertà, se ne avverte l’urgenza, di prendere una posizione.
Come scrive nella prefazione la criminologa Cinzia Mammoliti, precursore in Italia sull’argomento manipolazione relazionale e violenza psicologica, «l’ Autrice ha costruito il libro creando un vero e proprio equilibrio tra i due personaggi. La scommessa vinta è stata parlarne in modo onesto e dare ai due protagonisti lo stesso peso. […] Da leggere tutto d’un fiato».
Il libro è dedicato «a chi, la vita, l’ha solo sentita raccontare. A chi vede oltre il buio e riesce a cambiare strada».
Informazioni sull’Autore – Daniela Piras è nata a Sassari nel 1977. Giornalista pubblicista, si è laureata in Scienze della Comunicazione e Giornalismo presso la Facoltà di Scienze Politiche di Sassari. Collabora con varie testate giornalistiche locali ed è redattrice della rivista “Camineras”. Ha all’attivo la pubblicazione di una raccolta di racconti e poesie Parole sugli alberi (2011), un romanzo Village (2013), una raccolta di racconti intitolata Crash (Marco Del Bucchia, 2015). Per Talos Edizioni ha già pubblicato, nel 2017, un romanzo dal titolo Leo.
Alcuni scatti che non possono far altro che raccontare una piccola parte di quest’isola da cui si riparte a fatica…
“Uscite di emergenza” antologia di racconti a cura di Maria Cristina Parrella.
Un’antologia nata in un momento molto difficile per il nostro Paese. Sessanta autori reclutati sul web, data l’impossibilità a muoversi dalle proprie case. Le “Uscite di emergenza” hanno rappresentato le nostre vie di fuga. Racconti umoristici, racconti gialli, racconti “piccanti”, racconti romantici, racconti che toccano argomenti sensibili e drammaticamente attuali. Ogni autore ha intrapreso una o più strade per uscire, almeno mentalmente, dall’incubo della pandemia.
Febbraio 2020: primi casi di Covid-19 anche in Italia e istituzione delle Zone Rosse in alcuni comuni lombardi. Marzo 2020: tutta l’Italia è Zona Rossa. Inizia la fase 1, il “lockdown”, la chiusura totale. Per due mesi non si potrà uscire dai confini dei propri comuni; non si potrà uscire di casa, se non per pochi e comprovati motivi. Per questo motivo c’era bisogno di “Uscite di emergenza”.
Maria Cristina Parrella è la curatrice di questa antologia di racconti. La nostra scrittrice ha inventato il progetto denominato “Uscite di emergenza” reclutando gli autori che compongono questa squadra. Sessanta autori per sessanta biografie da raccontare; troppe, per essere incluse nell’antologia. Se siete curiosi di sapere chi sono, andate sul nostro sito web http://www.lineeinfinite.com, inquadrate con il vostro smartphone o cliccate il QR Code e vi si aprirà la pagina FaceBook con le loro schede.
Autore: A cura di Maria Cristina Parrella
Genere: Raccolta di racconti
Collana: Narrativa
Anno: 2020
Pagine: 462
Prezzo: € 18,00
ISBN: 978-88-6247-248-7
La nostra risposta al Covid-19…
Solo con Linee Infinite… emozioni tra le righe!
All’interno anche un mio racconto dal titolo “Un ottobre quasi estivo”
Tra pochi giorni, esattamente il dieci di luglio, uscirà il vinile 33 GIRI 180 GR. + album fotografico di “PERLE 2” (Azzurra Music) di DODI BATTAGLIA, il disco live in edizione limitata e autografata. Qualche settimana fa ho avuto il privilegio di intervistare telefonicamente, per SH Magazine, questo grande musicista. Dodi mi ha risposto dalla sua assolata Bologna, da dove si è detto subito nostalgico di chi, come me, si trovava in Sardegna; aveva una grande voglia di raggiungere la sua casa al mare qui, che si trova proprio di fronte all’isola di Tavolara, e mi ha invitato a darci confidenzialmente del tu. È venuta fuori una bella chiacchierata telefonica, semplice e ricca di umanità allo stesso tempo, che qui riporto nella sua versione integrale.
L’ album “Perle live 2” esce in un momento in cui i concerti sono sospesi.
Nei brani scelti per questa raccolta si parla della vita di tutti i giorni, di sensazioni comuni a molti, delle illusioni (e conseguenti disillusioni), dei conflitti che si vengono a creare nel corso di una relazione di coppia. Temi che riguardano tutti e che, insieme alla formula “live”, tendono a creare un legame molto forte tra chi suona e chi ascolta.
Questo disco può essere considerato come un modo surrogato per tenere vivo il legame con il proprio pubblico in questo momento ed evocare l’atmosfera particolare che si respira durante un’esibizione dal vivo?
Ad oggi lo si può intendere anche in questi termini. È una chiave di lettura a posteriori, ovviamente; il disco nasceva con altri presupposti, gli stessi con cui è nato “Perle 1”: per suggellare su un supporto quello che è stato un gran successo in teatro e di conseguenza discografico. È stato tale che si è pensato di organizzare il tour anche quest’anno: un tour partito ad ottobre che avrebbe dovuto concludersi a marzo, e che avrebbe dovuto bissare questo grande successo. A me non piace rifare le cose uguali, quindi ho pensato d’inserire in “Perle 2” altri dieci brani per offrire qualcosa di nuovo alle persone che venivano a sentire il concerto e di creare un cd. Avrei voluto registrare questi brani durante un concerto unico ma non è stato possibile perché le ultime tre date in programma sono state annullate: quella di Milano, Verona e Brescia, e il programma era di registrare il cd proprio durante il concerto di Brescia. Per trasformare una sfortuna in qualcosa di positivo ho riascoltato le registrazioni fatte nel corso del tour e ho selezionato il meglio. Grazie a questa scelta ne è scaturito una specie di “the best of”. Successivamente il tecnico ha mixato nel suo studio e spedito a me le tracce; a quel punto io, che ho uno studio di registrazione sotto il mio appartamento qui a Bologna, non ho fatto altro che perfezionare al millesimo quello che era già un ottimo lavoro.
Perle nelle perle ho voluto aggiungere un brano che mi è stato proposto dal musicista Marcello Balena, un brano d’ispirazione jazz che abbiamo scritto insieme; ne è nato un pezzo che non rientra in quelli che sono i brani storici dei Pooh ma che fa sempre parte del mio tipo di linguaggio musicale (Dodi ha conseguito nel 2017 il Diploma Accademico Honoris Causa di secondo livello in “Chitarra elettrica jazz” presso il Conservatorio “Egidio R. Duni” di Matera; N.d.R.).
Puoi raccontarmi qualcosa della collaborazione con Marcello Balena in cui hai potuto esprimerti in un ambito musicale diverso da quello noto ai più?
Il mio approccio con il Jazz, con il Prog o la Fusion, quella classica degli anni ‘70/’80/’90 che prevede la conoscenza di John McLaughlin, Di Meola, Chick Corea, di tutti i grandi non tanto del jazz stretto ma della fusion tra il jazz e quello che era il rock e il pop, ha influito molto nella mia maniera di essere di quel periodo. Quando Marcello Balena, che io non conoscevo, è venuto ad ascoltare un concerto di “Perle”, e mi ha proposto di partecipare ad un suo brano come ospite io gli ho risposto che sarei potuto essere interessato. In quel momento però non pensavo di avere del tempo a disposizione da dedicare a questo progetto. Invece, dopo poco, mi sono trovato a casa con tempo e voglia di sperimentare, con possibilità anche di fare cose diverse. È stato un bellissimo invito a mettermi alla prova, a sconfinare in un mondo artistico diverso.
Ho collaborato con tantissimi artisti, del resto: Gino Paoli, Zucchero, Vasco Rossi, Mia Martini… per cui quando Marcello mi ha sottoposto il brano mi sono offerto di completarlo insieme e di suonarlo insieme, e lo abbiamo realizzato in un sistema di lockdown, ognuno nei propri studi. È stato bello: un completamento di un’idea a distanza, quasi senza conoscersi. È venuto fuori un unico indirizzo da condividere fatto di buona musica.
Il brano in questione è “Sincerity”, l’unico inedito del disco, e nasce dall’idea di spiegare il modo in cui l’artista si pone nei confronti della musica. Quanto pensi conti il modo in cui ci si approccia alla musica, e quanto è importante questo approccio per poter stabilire una relazione profonda con quest’arte e non limitarsi ad esserne un mero esecutore?
Io ho cominciato a suonare quando avevo cinque anni, e sto per compierne sessantanove, quindi è un po’ di tempo che mastico musica; non siamo, però, fatti tutti allo stesso modo. Parto da alcuni presupposti: intanto la musica non ha mai fatto male a nessuno (sorride); è un sistema di aggregazione, di comunicazione che va al di là di quelli che sono i confini nazionali ed internazionali. Mi ricordo che sentivamo i brani che arrivavano dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra e capivamo il senso di ciò che dicevano anche se non capivamo le parole; questo perché arrivava una sensazione, un feeling, un mood. La musica è per me, e per tutti, una compagna di vita fantastica: cosa sarebbe il mondo senza la musica? Cosa sarebbe un film senza la colonna sonora? O cosa sarebbe andare al supermercato a spingere il carrello se non ci fosse una bella musica di sottofondo? Io credo che chi, come me, ha la fortuna di avere la musica come mestiere, debba innanzitutto capire che si tratta di uno strumento o anzi, meglio ancora: che noi siamo strumenti in mano alla musica, strumenti in mano alla creatività.Noi non possiamo far altro che studiare, metterci nelle condizioni di farci trovare pronti, perché prima o poi la vita e la musica ti danno la possibilità di metterti alla prova. Occorre studiare, mettersi nelle mani della musica e in quelle di Dio, ed essere “strumento di comunicazione” tra noi, insieme al nostro strumento, e il pubblico; perché la musica fatta da soli, col proprio computer davanti, non vuol dire proprio niente. Chiunque la faccia non vede l’ora di farla sentire alla propria fidanzata, al proprio amico, al proprio condominio, al proprio quartiere, alla propria provincia e alla propria regione. La musica è fatta per essere condivisa.
Che rapporto hai con il tuo pubblico?
Ho un rapporto di grande rispetto, di grande gratitudine. Dopo cinquant’anni che faccio il mestiere del musicista – il musicista di successo – non posso che dire «grazie» alla buona sorte. Grazie al po’ di talento che la mia famiglia mi ha voluto regalare –tramite il mio DNA di musicista – e grazie soprattutto alle persone che mi hanno permesso di esternare questa mia maniera di essere, perché sono tanti i musicisti che si sono affacciati in questo mondo e che sono scomparsi dopo sei mesi, o dopo sei anni.
Io ho cinquant’anni di carriera, ho venduto più di cento milioni di dischi, ho inciso più di trecento canzoni solo con i Pooh, ho avuto collaborazioni nazionali e internazionali, ho viaggiato per il mondo. Io devo dire «grazie» a Dio e «grazie» al mio pubblico.
Chi ha avuto un tale successo come me non può non ringraziare il cielo ogni mattina che si sveglia per avere avuto la possibilità di fare di una passione una professione: questa è la cosa più bella che mi è accaduta.
Come hai vissuto il periodo di confinamento sociale forzato? Cosa ti è mancato di più e cosa hai, come è successo a tanti, riscoperto in quei giorni?
Mi è mancata la condivisione: regalare delle emozioni al prossimo, condividerle con i miei musicisti, con il pubblico, ogni sera. Non c’è niente di più gratificante. Ho scoperto chi sono gli amici veri. In un momento di grande riflessione che ognuno di noi ha avuto in questo periodo – o sta avendo – ho scoperto quelle che sono dentro di me le cose e le persone più importanti; è stato un momento di profonda introspezione che mi ha portato – credo – a maturare ancora di più.
Intervista pubblicata da Shmag.it il giorno 28 maggio visibile cliccando sul Link: https://www.shmag.it/show/musica/28_05_2020/quattro-chiacchiere-con-dodi-battaglia-su-perle-2-il-suo-ultimo-album-live/