
In principio era l’alone viola, un immaginario quanto tristemente reale segno distintivo di chi si era macchiato di aver contratto un virus, quello dell’HIV.
Risultare positivo al test dell’HIV equivaleva infatti ad ammettere davanti al mondo intero di appartenere a una categoria “a rischio” della quale facevano parte coloro che avevano condotto uno stile di vita ritenuto immorale e riprovevole, sia per la troppa libertà sessuale, sia per l’utilizzo di droghe, in particolare l’eroina. Uomini e donne che diventavano marchiati inesorabilmente come “untori” e “peccatori”: da tenere lontano, emarginare e giudicare.
Erano i primi anni Ottanta e, per la prima volta, si sentiva parlare di un virus letale che si poteva contrarre nell’ambito più privato della vita di ciascuno, poiché il contagio avveniva tramite sperma, secrezioni vaginali o sangue: quello della sfera sessuale. Furono messi al bando innanzitutto gli omosessuali, rei di condurre un modo di vita sregolato e “contro natura” e subito dopo le persone con dipendenze da droghe, le quali trasmettevano il virus condividendo la stessa siringa.
Dalla segnalazione dei primi casi ad oggi molto è cambiato nelle tipologie di campagne d’informazione e di sensibilizzazione finanziate dal Ministero della Salute. Infatti dal primo spot, apparso in Italia nel 1988, in cui si diceva chiaramente che occorreva proteggersi durante i rapporti sessuali con il preservativo, in cui non si creavano allarmismi ingiustificati e dove anzi si affermava che “per fortuna non è facile ammalarsi di AIDS”, si sono fatti (paradossalmente) dei passi indietro notevoli.
L’influenza dello Stato del Vaticano ha decretato l’abolizione della chiarezza linguistica a favore di una serie di messaggi velati e confusionari che, lungi dall’informare sul reale rischio di contaminazione rispetto al virus, hanno creato panico e ansia nella popolazione, fino ad arrivare a stigmatizzare la persona che aveva contratto il virus come sbagliata, peccatrice, rea di “essersela cercata”.
Il punto più basso della campagna informativa si ebbe in Italia con il messaggio dell’allora Ministro della Sanità Donat-Cattin che arrivò ad attribuire ai malati stessi le colpe di aver contratto il virus. “L’AIDS ce l’ha chi se lo va a cercare” si leggeva nella lettera che il ministro inviò alle famiglie italiane, generando una totale psicosi. “La prima regola alla quale è consigliabile attenersi è quella di un’esistenza normale nei rapporti affettivi e sessuali”.
Di proteggersi durante i rapporti sessuali non si parlava più: in compenso, nell’ambito della normalità invocata, era presente un invito all’astinenza da parte delle persone con il virus come rimedio sicuro, poiché il preservativo non era ritenuto tale. A fine degli anni Ottanta in Italia si respirava un’atmosfera degna del Basso Medioevo. Le istituzioni non davano elementi in grado di informare e, di conseguenza, tutelare la salute dei cittadini.
Da allora si sono alternate campagne fumose che hanno in un certo qual modo “stilizzato” il messaggio, e il relativo concetto, in maniera così estrema da generare una psicosi diffusa, senza senso.
La creazione di una “categoria a rischio” ben delimitata ha fatto sì che le persone non avessero reale percezione di quali fossero i comportamenti, quelli sì “a rischio”, da evitare. Si arrivò ad aver paura di poter contrarre il virus attraverso una stretta di mano con un individuo appartenente a tale confinata categoria.
L’ultimo spot informativo del Ministero della Salute risale al 2013. La campagna si chiamava “Fine delle trasmissioni” e faceva riferimento alla trasmissione del virus. Ritorna il concetto del “problema che riguarda tutti”, un po’ troppo fuori tempo massimo, e si invita ad usare il preservativo e ad eseguire il test per verificare se si ha contratto o meno il virus.
Da allora tutto tace. La malattia sembra sparita; lo stato di inconsapevolezza dei giovani si estende anche agli adulti che collegano l’AIDS ad un brutto sogno degli anni Ottanta che non esiste più. Come avviene spesso, ciò di cui non si parla non esiste. In realtà, ciò che più sconcerta di più, è il fatto che l’AIDS esisteva ieri ed esiste ancora oggi, e che coloro più a rischio sono quelli che non sanno di aver contratto il virus. Si ha paura di fare il test, ancora oggi, e si ha più paura di scoprire di avere una sieropositività che non di curarsi.
Il pregiudizio che si è creato nei confronti degli ammalati di AIDS è stato talmente forte da non avere eguali in altre patologie. Il potente stigma sociale che ha segnato le persone risultate sieropositive all’HIV, ha portato alla paura di voler scoprire di essere stati contagiati. L’ansia di essere giudicati per i propri comportamenti, per una presunta immoralità e attigua colpa, ha come risultato un dato allarmante: una consistente fetta di inconsapevoli che ha contratto il virus ma non ne è a conoscenza. A ciò si aggiunge il dato oggettivo che riguarda la difficoltà di accesso al test e l’offerta non sufficiente. Il dato sommerso è quello che più preoccupa i medici.
La conseguenza è che ci si cura soltanto quando si hanno già i sintomi che fanno emergere la malattia, quando ci si potrebbe curare meglio, e prima. Sono le cosiddette “diagnosi tardive”.
In Sardegna la situazione è preoccupante, proprio per la diffusa scarsa percezione del rischio. I dati diffusi dalla LILA di Cagliari (Lega italiana contro la lotta all’AIDS) diagnosticano 54 nuovi casi di infezione nel 2016; 61 i casi registrati nel 2017. Emerge un dato inquietante: quasi la metà degli studenti intervistati dichiara di non utilizzare il profilattico durante i rapporti sessuali.
In vista della giornata mondiale di lotta all’AIDS (WAD) del primo dicembre, The Joint United Nations Programme on HIV/AIDS – UNAIDS – ha scelto per il 2019 il tema “Community make the difference”, un riconoscimento al ruolo essenziale delle community, delle associazione e della società civile nel contrasto all’HIV.
La LILA quest’anno aderisce alla testing week europea, dal 22 (oggi. n.d.R) al 29 di novembre: www.testingweek.eu
L’ultima campagna della LILA invita a combattere il pregiudizio con l’informazione. Nelle locandine informative si fa presente una verità importante, ovvero che oggi, chi segue la terapia retrovirale può condurre una vita normale, avere figli e soprattutto non risulta essere contagioso e avere una lunga aspettativa di vita.
Insieme alla prevenzione, che andrebbe ripresa nelle scuole dove sino agli Novanta è stata molto efficace, resta essenziale eseguire il test, a questo proposito rendiamo noto che, in accordo con la LILA, il MOS di Sassari ha acquisito e messo a disposizione l’accesso al test.
Come si evince dal loro sito: A partire dal 19 Dicembre 2018, ogni primo e terzo mercoledì del mese dalle 16 alle 18.30, si può fare il test rapido, anonimo e gratuito nella sede del MOS in via Rockfeller 16/c a Sassari. Il servizio è svolto in collaborazione con CLAAS (Comitato Lotta all’Aids Sassari), circ. Arci Borderline e all’interno della campagna nazionale We Test! Per ulteriori informazioni invitiamo a visitare il sito al link: https://www.movimentomosessualesardo.org/test-hiv/
Immagine tratta dalla campagna informativa della LILA
Articolo scritto per PesaSardigna del 22 novembre 2019.