Non si ruba sul latte versato. Intervista agli autori del libro – Articolo intervista per PesaSardigna

A febbraio di quest’anno la Sardegna è stata scenario di una delle lotte più dure portate avanti dai pastori. La lotta è stata principalmente contro chi utilizza il latte da loro prodotto e lo trasforma, gli industriali, accusati di guadagnare senza avere nessun rischio d’impresa. È in questo rapporto tra pastori/lavoratori e padroni/industriali che si insinua la rottura.
È una lotta che va oltre la richiesta di interventi da parte dell’anello intermedio della politica, non si vogliono ottenere sovvenzioni, si vuole mettere in discussione alla radice il rapporto tra coloro che producono e coloro che controllano l’intera filiera.
Per più di un mese si assiste a uno sciopero durissimo, con presidi permanenti in otto caseifici, camion perquisiti ai porti, autocisterne assaltate per impedire di far conferire il latte agli industriali, a quei padroni che, nascondendosi dietro parole come “mercato” e simili, decidono che prezzo dare al lavoro dei pastori, al loro latte e al loro sudore. Il mercato è visto come una grande truffa che serve a giustificare condizioni illogiche, che vedono i produttori come l’anello debole della filiera, senza alcun potere decisionale.
La recriminazione maggiore è ben sintetizzata nella dichiarazione di un pastore di Siniscola, il quale afferma che «Questo è l’unico mestiere al mondo in cui chi compra fa il prezzo».
Si è trattato di una protesta che ha tenuto alta l’attenzione della Stampa per oltre un mese. Abbiamo chiesto a un redattore di InfoAut, coautore del libro “Non si ruba sul latte versato – sullo sciopero dei pastori sardi”, edizioni DeriveApprodi, di darci il suo punto di vista su una lotta che lo ha visto, insieme ad altri militanti, partecipare attivamente ai presidi ed entrare in contatto diretto con i protagonisti di questa lotta.
  1. I pastori sono considerati lavoratori autonomi. Nell’analisi dello scontro tra produttori e industriali riportato nel libro invece troviamo parole che sembrano appartenere ad altre dinamiche, come “salario”. Come si può associare all’idea di lavoratore autonomo un concetto come quello di “salario”? Sembrerebbe una contraddizione in termini.
È questo uno degli aspetti su cui ci siamo impegnati a dissipare alcuni pregiudizi che ci sembrava affliggessero i contesti dei militanti di sinistra che osservavano in quelle settimane di febbraio la protesta dei pastori. Si sa, è opinione ricorrente in questi ambienti giudicare come estranee alla lotta e alle possibilità della lotta di classe categorie estranee a quelle tradizionalmente protagoniste della storia del movimento operaio: i salariati. Ci sembrava allora che alcune rappresentazioni all’apparenza distanti andassero fatte incontrare alla luce di un tentativo di lettura materialistico dei fenomeni. Ogni allevatore è titolare di partita IVA, questa è una ovvietà. È così che una filiera produttiva con al vertice industriali e caseari e grande distribuzione organizzata scarica verso il basso i costi di produzione comprando da altri attori economici subordinati un prodotto di consumo intermedio da trasformare e immettere sul mercato. Ogni allevatore è dunque formalmente autonomo sul mercato ma salariato di fatto perché di quanto valga il suo lavoro, e il prodotto del suo lavoro decidono altri padroni: gli industriali, le politiche comunitarie, la grande distribuzione. D’altra parte in quei 60 centesimi al litro non si può dire che c’è il salario del pastore? Il punto è che anche della nozione di salario si condivide un’interpretazione molto riduttiva. Non si tratta infatti, come sosteniamo anche nel testo, solo della forma della compravendita della forza lavoro ma del modo della sua alienazione, il fatto che il pastore non controlli nulla della sua vita e del suo lavoro e che il modo in cui ne è espropriato passa per la mercificazione della capacità umana.
2. Gli interessi dei pastori e quelli degli industriali, nonostante entrambi appartengano alla stessa catena produttiva, appaiono contrapposti. È qui che l’idea di non conferire il latte nei caseifici da parte dei pastori appare come un tentativo di far aumentare il loro peso e la loro capacità di contare. Che aria si respirava nei presidi? Pensi di aver assistito a una nuova presa di consapevolezza dei pastori, capace di mettere in discussione lo stato attuale del rapporto tra i vari anelli della catena produttiva, specie dei più giovani tra loro?
Gli interessi dei pastori e quelli degli industriali sono contrapposti. Come ripeteva un pastore della Baronia: “noi pascoliamo e mungiamo, non siamo agenti di borsa”. Lo ripeteva per ribadire un concetto molto semplice: il pastore vende, l’industriale compra, trasforma e rivende il latte del pastore in prodotto finito. È la forma elementare della circolazione che realizza il capitale degli industriali che investono nel settore: denaro, merce, denaro. C’è un antagonismo elementare tra la figura di chi vende e quella di chi compra, ognuno persegue il suo specifico interesse sebbene con mezzi e capacità differenti… l’industriale controlla il lavoro del pastore, come dicevamo. Ora, troppo spesso i vari cicli di lotta dei pastori sardi sono stati rappresentati mistificando questi interessi contrapposti. Si parlava di “salvare la filiera”, “rilanciare il settore” e cose di questo tipo. Queste espressioni erano completamente sparite nei primi giorni dello sciopero, prima che la questione dei tavoli di trattativa tornasse centrale nella dinamica di conflitto apertasi. Perché? Di fatto questo sciopero attaccando direttamente l’interesse dell’industriale mostrava la realtà di interessi contrapposti nella stessa filiera. Era come se i pastori dicessero: non sarà il mercato a salvarci, non la quotazione in borsa del pecorino romano, ma, prima di tutto l’erosione dei margini di profitto degli industriali. In questa maniera – sentivamo dire ai presidi – sicuramente avremmo garantito il valore del nostro lavoro e potremmo raggiungere un euro al litro. Certamente la situazione era ancora più complessa ma la difesa egoistica di un interesse irriducibile, di parte e antagonista a quello del padrone che controlla il tuo lavoro e ne decide il prezzo era una conquista straordinaria per la chiarezza, anche comunicativa, della lotta in corso. Non direi si trattasse di maggiore consapevolezza acquisita. Infatti di odio per gli industriali ne ho sentito sempre parlare, in ogni dove in Sardegna e a ogni ondata di protesta dei pastori. Il punto di novità qui è stato un altro: quest’odio non veniva più “diluito” negli obbiettivi politici della lotta in una generica richiesta di aiuto alla politica affinché mediasse tra pastori e industriali ammortizzando i costi vivi di produzione dei primi e garantendo i profitti dei secondi. Non si trattava più di salvare la filiera quanto semmai di spezzarla per contrattare un nuovo costo del lavoro e nuovi rapporti di forza nello stesso ciclo produttivo. Questo ci sembra sia stato un fattore di discontinuità notevole, soprattutto nei primi dieci giorni di protesta, favorito in particolar modo dallo scavalcamento di vecchie rappresentanze abituate a condurre la lotta in questa logica di mediazione e dall’irruenza della protesta partita all’improvviso e in maniera incontrollabile. In questa dinamica ci sembra di aver osservato come molti pastori giovani e giovanissimi, estranei anche anagraficamente ai precedenti cicli di lotta, agissero un ruolo di primo piano riproducendo e allargando pratiche di lotta orientate a colpire gli industriali: i presidi ai caseifici, il non conferire, la caccia alle cisterne. Erano estremamente conseguenti: se il problema è l’industriale è il suo interesse che va danneggiato. Tantissimi ripetevano: “non abbiamo da chiedere nulla ai politici, basta con le elemosine”.
3. Lo sciopero dei pastori può essere visto come un conflitto di classe? Quanta libertà e potere decisionale hanno i pastori all’interno della filiera produttiva? Quanto le famigerate “regole del mercato” incidono sulla vita quotidiana e sul lavoro reale dei pastori?
È importante ponderare le parole, per non sovraccaricare di significati esterni ciò che le parole denotano e per non tradire la realtà. Nel libro a proposito di questo sciopero di febbraio parliamo di frammenti di lotta di classe perché in alcuni suoi aspetti ci sembrava di rintracciare alcune condizioni di sviluppo proprie di possibili conflitti di classe all’altezza del nostro tempo. Mi spiego meglio. Lo scontro con gli industriali come anello superiore della catena produttiva, la costruzione di un interesse collettivo irriducibile e contrapposto a questo per una nuova contrattazione collettiva nel rapporto produttivo, il negarsi come fattore di valorizzazione del capitale detenuto dagli industriali, quindi di fatto, non conferendo, scioperare per aumentare il valore della propria attività. Questi sono frammenti di un conflitto con caratteristiche di classe. Ma la suggestione si ferma qui. Infatti come dichiarato da alcuni pastori al blocco di Lula: “noi restiamo una categoria, non siamo classe”. Bisogna volare basso ma dare fiducia alla realtà quando questa grazie alle lotte disvela l’antagonismo nei rapporti di sfruttamento che riproducono questo mondo.
In questo senso ci siamo sentiti di parlare di lotta di classe, anche per sfidare una percezione ottusa e diffusa che invece per pregiudizio questa fiducia a quanto accaduto non la voleva accordare. Frammenti comunque. Anche se molto potenti e in grado di mostrare un antagonismo dentro un possibile sviluppo di classe perché poi attorno alla lotta almeno fino al 13 febbraio altre istanze, per quanto confusamente, si accordavano. Non bisogna sottovalutare il peso di intere comunità che sono scese in lotta con i pastori. Non che hanno solidarizzato, ma hanno proprio lottato con loro. Al blocco del bivio di Lula del 13 febbraio si trovavano almeno quattromila persone dai paesi di Barbagia e Baronia.
Centri con scuole, uffici e attività completamente chiusi. Perché? Era una forma di governo del territorio infrastrutturato e riprodotto da quell’economia che veniva contestata. L’essere ostaggio delle sue regole e di quelle del suo mercato. Venivano fermati e perquisiti i camion della carne per controllarne la provenienza perché le carni di importazione abbassano il prezzo delle produzioni sarde, perché tutta la vita e la riproduzione sociale è stata integrata in circuiti mercificati a condizioni non sostenibili. Espropriati della possibilità di produrre, ridotti i redditi, costretti a consumare. A un certo punto attorno alla lotta dei pastori sembrava si addensassero anche queste contraddizioni come ulteriori frammenti di un possibile sviluppo di classe, ovvero per l’autonomia di una macroparte in conflitto da un padrone collettivo – il mercato – che scompone gli aggregati sociali, mercifica la riproduzione della vita, erode i salari. Sono segnali importanti all’altezza dei conflitti al tempo della crisi in cui dopo il lungo ciclo neoliberista sembrava non esserci più spazio per un’ipotesi di ricomposizione delle istanze proletarie, di chi comunque lavora e consuma non alle proprie condizioni, in un corpo collettivo, di classe per l’appunto. Frammenti, certo. Occorre ribadirlo. Ma forse in Francia, per quel che riguarda i gilets jaunes, su contraddizioni analoghe quei frammenti iniziano a comporsi in una nuova sintassi di conflitto e critica all’esistente.
  1. Si è sentito dire spesso, in questa protesta e anche in tempi passati, che i pastori sono per lo più degli “egoisti”. Secondo te perché vengono tacciati di egoismo?
    È una rappresentazione ricorrente in cui un’immagine romantica trasfigura in giudizio politico e viceversa. La secessione dalla società di questo mestiere che si svolge nelle campagne ha alimentato un’idea del pastore come uomo solo interessato solo a sé, legato alle comunità di appartenenza come appendice relativamente indipendente. Cosa c’è di vero in questo? Alle condizioni della produzione industriale del formaggio pecorino ben poco, se non il fatto che effettivamente, in quanto produttori autonomi, i pastori nella catena produttiva hanno poche occasioni di incontro tra di loro sebbene negli ultimi anni i social network abbiano costruito una comunicazione informale endogena a questo mondo la quale ha anche rappresentato una infrastruttura importante per la lotta. Comunque questo essere soli è stato percepito come un pensare solo a sé. Da qui l’accusa di egoismo, confermata, a detta di tanti, dai troppi cicli di lotta precedenti ritenuti troppo dipendenti dall’assistenzialismo della politica, dipendenti dagli aiuti solo per sé. Si tratta di giudizi esterni al mondo dei pastori ovviamente. Ma questi giudizi andrebbero sfidati. Ricordo bene che in quei giorni quando sentivo, specie in contesti militanti, sentenze di questo tipo istintivamente mi veniva da pensare: “ma qual è la categoria o la figura anche individuale che, in società scomposte e atomizzate come le nostre, lottando non parte dalla difesa del proprio interesse?”. Non esistono le lotte combattute per l’universale e se queste arrivano lo diventano. Questo discorso dell’egoismo va anzi impugnato. Meno male che c’è chi lotta per il proprio interesse specifico, portandolo fino in fondo, costruendo un’irriducibilità di questo ad altri. È nella costruzione della parzialità che emergono gli interessi in conflitto senza che questi vengano mistificati nella difesa di interessi comuni di vario tipo: dalla filiera, alla democrazia. Inoltre è solo sullo sviluppo di questa parzialità che le gerarchie nella riproduzione del rapporto sociale si possono incrinare ponendo delle condizioni di ricomposizione su istanze ulteriori e allargate. Ma se non si lotta a partire da sé, dalla propria condizione e contro la propria condizione attuale non c’è una generalità possibile a venire.
  2. Con l’accordo raggiunto l’otto marzo si è stabilito di fissare il prezzo del latte a 74 centesimi al litro, e ventiquattro milioni sono andati dal governo agli industriali. È una soluzione-tampone che ha lasciato rabbia e molta delusione. Adesso che i riflettori si sono un po’ spenti, e ci si è concentrati sulle conseguenze di tali rimostranze (attualmente ci sono centosessanta procedimenti penali in corso) è importante capire che il fuoco della protesta cova sotto la cenere. Nel libro si dice che le condizioni per far sì che la lotta riesploda ci sono tutte, puoi spiegarci il motivo, in maniera sintetica?
Sì la brace cova sotto la cenere, ma è importante anche fare il punto sulla trattativa penso. O meglio sul senso che ha acquisito in una dinamica di scontro vero. Un rischio che si è profilato, specie tra chi ha assistito dall’esterno alla lotta, è stato nel corso delle settimane quello di dividersi tra tifosi della lotta a oltranza e partito della fiducia nella trattativa. È sempre stata una falsa opposizione che nasconde un’attitudine a giudicare la lotta invece che a comprenderla. Credo che ogni conflitto quando è vero e trasformativo della realtà da un lato la nega radicalmente puntando a rovesciarla da un’altro lato, ma nello stesso sviluppo dialettico, innova le condizioni di riproduzione della realtà. La trattativa è stata per l’appunto questo: il verso innovativo di uno stesso movimento conflittuale impostosi con il rifiuto di continuare a lavorare come si lavorava prima, a 60 centesimi a litro. Quindi, primo fatto: senza lo sciopero non ci sarebbe stata nessuna trattativa, vero; ma, secondo fatto: si può discutere di come e per quali limiti progettuali la trattativa abbia poi preso il sopravvento sullo sciopero diventando l’aspetto centrale e ufficiale della protesta ma non si può affermare che la trattativa abbia “tradito” la lotta. Un pastore di Siniscola, un’avanguardia di lotta, sostenitore dello sciopero duro e mai implicato nelle dinamiche dei tavoli, quando abbiamo presentato il libro a Siniscola, ha rammentato che pure quei 14 centesimi in più sono innanzitutto un risultato della lotta e un nuovo punto di partenza aggiungendo che se non si è convinti di questo allora ci si inganna, ritenendo di aver lottato per nulla. Invece non si è lottato per nulla, perché nuove condizioni di possibilità sono emerse. La trattativa è un po’, diciamo, il sintomo di un autonomia che c’è, quella di avere la forza di negarsi in un ruolo preordinato lottando collettivamente, e di quella che manca, ovvero la capacità di costruire un progetto su questa forza favorendo però comunque un’innovazione, un cambiamento e quindi la possibilità di continuare a svilupparla in rivolgimento. Il massimalismo di per sé non è una risposta sufficiente. Detto questo il malumore è tanto. Ed è comprensibile. Infatti la domanda iniziale era giustamente molto pretenziosa, frutto anch’essa dell’accumulo di cicli di lotta precedenti. Ma ciò che va specificato è che questa insoddisfazione per una trattativa ferma non è attribuibile solo a un umore oltranzista della base di chi ha lottato. Ci sono delle ragioni materiali. Provo a elencarne alcune per punti. Primo: il fatto è che ancora una volta il prezzo del latte e le sue progressioni sono agganciate al prezzo del romano sul mercato, dunque alla produttività dei padroni. Ciò ovviamente non sposta gli assetti materiali contro i quali la lotta è esplosa. Secondo: i 74 centesimi ristrutturano la filiera. Gli industriali hanno liquidità per sostenere il sovrapprezzo mentre le cooperative avendo stipulato prestiti con le banche su una campagna che prevedeva un costo del latte più basso, si trovano ora scoperte. Pare che alcune grosse cooperative siano in ritardo nei pagamenti dei mesi successivi all’accordo. Ciò ovviamente aumenta il malcontento dei soci-conferitori che hanno condotto la stessa identica battaglia di chi conferiva agli industriali. Terzo: gli industriali lamentando una crisi di sovrapproduzione contemplano questa ristrutturazione della filiera con un restringimento della base dei conferitori. Pare infatti stiano stipulando contratti separati con aziende grosse – oltre i mille capi – le quali potrebbero sopportare un prezzo basso del latte. Si produrrebbe così in tendenza uno scontro tra allevatori medio-piccoli che sono la più parte e la base più conflittuale dello sciopero e grossi allevatori. Questi verrebbero integrati nel mercato a condizioni non sostenibili dagli altri. Quarto: non tutto ruota attorno alla trattativa. Le generazioni più giovani e centinaia di pastori impegnati nello sciopero sono stati solo parzialmente coinvolti dalla dinamica di sviluppo delle trattative. Rappresentano la faccia non ufficiale della lotta e allo stesso tempo la sua ossatura. Questa ancora continua a organizzarsi o a non conferire. Porta avanti comunque la lotta anche se le manifestazioni di questa non emergono sul lato dell’ufficialità, di ciò a cui la politica e la comunicazione danno importanza, ma ciò non significa che non possano ritrovare un’autonomia di linguaggio e dunque di protagonismo che costringerà di nuovo la controparte a fare i conti con una domanda irrisolta: non solo un euro a litro di latte ma più potere e controllo sulla propria vita per migliaia di pastori.
  1. “Non si ruba sul latte versato” si chiude con una riflessione sul fatto che la potenza di questa lotta consiste nel suo essere “incompiuta” e con la sua incompatibilità con il regime di mercato. Cosa dobbiamo e possiamo aspettarci nell’immediato futuro?
È in questo senso che sosteniamo che quanto avvenuto in Sardegna a febbraio rappresenta una lotta all’altezza di questo tempoTempo dei neopopulismi, come amano dire i politologi, o tempo della crisi del neoliberismo. Infatti è vero che la lotta ha innovato delle condizioni di questo lavoro ma il suo risultato più importante è aver mostrato anche e soprattutto l’incapacità di riformare il settore alle sue stesse condizioni. Non c’è capacità di recupero istituzionale a una domanda di conflitto quando questa assume la chiarezza del proprio obiettivo e l’irriducibilità del proprio punto di vista e di quello delle reti sociali produttive e riproduttive che aggrega. Per questo è incompiuta. Perché ciò che vuole davvero non lo otterrà alle regole del gioco a cui vorrebbero farla stare. C’è in ballo molto di più… ma qui ci fermiamo. In Francia, su proporzioni ovviamente differenti, si assiste alla stessa dinamica. Questa lotta è stata innanzitutto un frammento di possibilità che ci consegna una rinnovata fiducia nella possibilità di lottare e ricomporre su istanze politiche autonome mondi che pensavamo integrati e compromessi irrimediabilmente con la riproduzione capitalistica della vita, strozzati da questa. La partita non è mai chiusa.

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