Gli hater esistono anche fuori da Facebook

Siamo abituati a leggere, sotto post di quotidiani online e altri mille post nei social network, considerazioni e frasi che, per usare un eufemismo, incitano all’odio sociale. Nascosti dietro lo schermo di un computer o di un telefono, non vedono l’ora di esprimere una opinione, anche quando non ne hanno una chiara, ma lo strumento invoglia. 

È così facile, questione di un attimo, e il pensiero passa subito dalla mente alla forma scritta, pronto per essere postato e reso pubblico, affinché tutti, ma proprio tutti, possano leggerlo e magari mostrare con un like il proprio supporto e aderenza all’idea. 

Ma l’arena virtuale è luogo fertile specie per le discussioni che ne nascono, i botta e risposta, gli insulti, lo scambio (più o meno civile) di vedute, tutto vi è concesso. 

Quando non si sa più cosa ribattere, arriva la formula magica: il famigerato “ban” termine che ha origine dall’inglese e che significa “bandire/interdire”, insomma annientare qualsiasi contradditorio. Quando ci si stanca, poi, non c’è nessun problema, nessuno chiederà conto della mancanza di una risposta, dato che tutte le parole si assorbono in rete e, dopo poco, scompaiono. Un hobby che ha dei risvolti nella vita sociale (reale) piuttosto inquietanti. 

Nella vita di tutti i giorni, infatti, non è raro imbattersi in discussioni create all’interno di contesti che, fino a qualche tempo fa, erano considerati tranquilli, e dove si poteva tranquillamente leggere una rivista o fare due chiacchiere sul tema più classico in assoluto: il tempo. Sto parlando delle sale d’aspetto, quei luoghi-non luoghi dove gente di diversa età si riunisce in attesa di poter conferire a colloquio con il proprio medico. 

Capita che le più elementari regole di civile convivenza, in tali contesti, non siano più rispettate poiché considerate arcaiche. Non si saluta più, per esempio, quando si entra in un luogo pubblico, che sia una sala d’aspetto o un autobus e, quando si ha l’ardire di farlo, pochi o nessuno rispondono, perché troppo impegnati in varie attività (al 98% consistente nel consulto del proprio smartphone). In tali luoghi “pubblici” però si può avere la (s)fortuna di incontrare loro, gli hater dei social: in carne, ossa e maleducazione. 

Gli hater si riconoscono perché sembrano non dare alcuna considerazione a chi si ritrova intorno a loro, fin quando non capiscono che, quelle stesse persone che hanno ignorato, possono diventare il loro “pubblico”. 

Così capita che una persona, magari di mezza età, inizi a parlare del più e del meno, per arrivare poi a ciò che veramente le sta a cuore: gli immigrati. Gonfi di termini e di informazioni acquisite dai social e dai vari siti di bufale (cosiddette fake news) connessi, non hanno nessun timore ad esporre i loro punti di vista, dimenticandosi di essere “nudi” e di mostrarsi in viso, e di non avere nessuno schermo che li protegga. 

La rabbia di queste persone viene fuori in maniera evidente, lasciando senza parole (quasi) chi si trova nella malaugurata situazione di doverli ascoltare. Si assiste allora allo sprigionarsi da tali bocche di una marea di parole rabbiose e di anatemi che hanno come bersaglio principale loro: gli immigrati. Le persone “rabbiose” in astinenza visibile dai social, hanno un solo e unico punto fermo: le persone di colore, colpevoli di venire qui da noi evoluti (?) a mangiare a scrocco, di essere ben piazzati, di possedere uno smartphone e di fare figli senza criterio, con la consapevolezza che saranno campati da noi (sempre cittadini di serie A e perciò evoluti) che invece siamo costretti a lavorare fino alla vecchiaia. 

Ma ciò che più si recrimina a queste persone, che “i rabbiosi” identificano come uno sciame indistinto, alla stregua di cavallette, è di non stare al proprio posto. E cioè nell’unico posto dove i social-rabbiosi possono tollerarli: la TV, dove coloro sono protagonisti del documentario storico “La fame nel mondo”, all’interno del recinto virtuale che ne impedisce di sentirne l’odore. Solo lì possono stare, per loro, al lontano dalle nostre piazze, e lì possono commiserarli tranquillamente, facendo anche di bambini denutriti e malati i protagonisti delle loro preghiere domenicali. 

In situazione dove il malessere sociale si espande a macchia d’olio e dove trasmissioni televisive sono vere e proprie “arene”, dove l’insulto sostituisce il dialogo, e dove i conduttori operano come arbitri distratti, questo è quello che ne consegue. 

In assenza di un salotto televisivo e di un ring, i portatori di verità assolute, non abituati ad un confronto, hanno trovato il loro spazio nelle sale d’attesa, e occorre fare molta attenzione quando li si incontra. 

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