L’usciere

di Daniela Piras

La sala d’attesa era già stracolma di gente, quella mattina di metà dicembre.

Piero guardava le facce delle persone sedute di fronte a sé e si chiedeva il perché. Nello specifico si chiedeva il perché di quel cambiamento inaspettato e per niente voluto, avvenuto in una fase così delicata della sua vita. Eppure c’era quasi riuscito, nel suo intento. Non lavorare mai, almeno non nel senso becero del termine, e vivere dignitosamente con il suo stipendio da usciere.

Ah, i bei tempi andati! Quanti ricordi gli affollavano la mente, in quella come in altre mattine precedenti, e lo aiutavano ad andare avanti, a farsi forza. Quante belle passeggiate, quante belle chiacchierate, e i caffè di metà mattina al bar vicino. Il suo barista di fiducia, Maurizio, il suo “Buongiorno” così familiare, gli odori di croissant alla crema, gli aromi dei chicchi di caffè appena tostati, e quei profumi che invadevano delicatamente gli spazi del locale di via Pertini; la gente che passeggiava, si fermava per una pausa, e con lui interagiva. Ora, invece? A volte credeva di essere diventato invisibile. Dietro quella scrivania tondeggiante, e quel triste cartello: Ufficio informazioni. A cinquantotto anni! Non è un’età in cui si può cambiare Vita, così, alla leggera. Ma doveva tenere duro. Mancavano solo pochi anni all’età pensionabile, doveva stare calmo e cercare in qualunque modo di abituarsi alla sua nuova condizione di lavoratore. E, piano piano, con la giusta flemma, si stava abituando. Passare da un lavoro-non lavoro ad avere una collocazione chiara non era stato semplice. Gli mancavano i suoi colleghi, che gli erano stati sempre vicino per quasi trent’anni, e che lui considerava ormai la sua famiglia. Quella mattina Piero era più inquieto del solito, non riusciva proprio a stare seduto, si costrinse a focalizzare l’attenzione su qualcosa di materiale, e di presente. Guardò in mezzo alla folla, tra gli utenti, poi si perse nel profilo di una giovane ragazza che stava in piedi davanti a lui. Notò la linea delle labbra, perfetta, messa in risalto da un rossetto dalla tonalità arancio, e le ciglia lunghe. I capelli color crema, lisci come seta, acuivano quella percezione di ordinata freschezza. La ragazza guardava il tabellone davanti a sé con evidente impazienza, tenendosi il cappotto chiuso con le mani. Uno sguardo al tabellone luminoso, un orecchio teso a sentire l’annuncio della lettera e del numero chiamato, uno sguardo distratto rivolto alle altre persone in fila. Piero pensò che gli piaceva, e molto, poi realizzò che poteva essere non solo sua figlia, ma addirittura sua nipote; lui, però, era un uomo solo e senza famiglia, per cui questi pensieri restarono nella sua testa per una manciata di secondi, dopo di che riprese a fissarla, cercando di non dare nell’occhio.

Le ore non passavano mai, e Piero si sentiva come dietro le sbarre, gli sembrava quasi di poterle toccare, a volte, si sentiva come se gli avessero legato alla caviglia una palla e una catena, come quelle che aveva visto in Tv, nelle scene di alcuni film storici. Si sentiva davvero in galera, peggio, si sentiva come una bestia feroce in gabbia. Girò la testa prima a destra, poi a sinistra. Gente, gente, e ancora gente, in fila. Tutti presi nella lettura di qualcosa, concentrati ed assenti. Ognuno nel suo mondo. Questo spettacolo lo deprimeva, lui adorava i contatti sociali, reali, palpabili! Le chiacchierate con la gente, ah, quanta gente che aveva conosciuto quando faceva l’usciere! Una parola tirava l’altra, tutti, tutti si avvicinavano a lui, era stato il primo punto di riferimento dell’intero ufficio anagrafe per una vita!

– Scusi?
– Sì, dica.
– Qual è lo sportello dove richiedere uno stato di famiglia?
– Qual è lo sportello dove fare il rinnovo della carta d’identità?
– A che ufficio devo rivolgermi per richiedere un cambio di residenza?
– Qual è, qual è, qual è…

E iniziavano i discorsi, sul più, sul meno, sulle mezze stagioni ormai scomparse, sui buoni sentimenti di un tempo, sui rapporti umani ormai andati, sulla solidarietà scomparsa, su tutto quello che prima era meraviglioso e che ora non esisteva più, e un “ma come la trovo bene”, “ma quanto tempo, e i tuoi figli?” “Eh, il governo, piove sul bagnato, ormai sono tutti raccomandati…” e poi, quando la conversazione si infittiva:

– Caffè?
– Certo, perché no?

Caffè, chiacchiere, sorrisi, storie, strette di mano, buon lavoro, saluti a casa, passate a trovarmi, Maurizio, segna sul mio conto, no no siete miei ospiti, non ci provate nemmeno… pausa caffè, pausa sigaretta, pausa per prendere aria, ché all’ufficio anagrafe c’era sempre caldo…

E poi: la ricollocazione, il trasferimento, le nuove mansioni. Gli avevano dato la notizia così, senza un minino di tatto. L’ufficio anagrafe si sposta, OUT, gli uffici emigrano, gli impiegati si spostano, si delocalizzano… Ah, la globalizzazione! lo aveva sempre saputo che non avrebbe portato niente di buono. Ne aveva parlato subito con Lucio, storico edicolante di via Pertini, e Lucio non poté che dargli ragione, anche secondo lui tutto quel via vai era parte di un piano ben studiato per far morire il centro della città, a favore della periferia. E in città era così da un po’, strutture mastodontiche nascevano così, dall’oggi al domani, con uno scopo, per poi restare semi abbandonate per anni, prima di trovare un altro perché. In quel caso, gli uffici dell’anagrafe si spostavano in un ex centro per anziani mai avviato, all’interno del quale erano già presenti da qualche tempo altri uffici della pubblica amministrazione.

Nessun ragionamento e nessuna conquistata consapevolezza poteva servire a cambiare lo stato delle cose. Allora Piero aveva iniziato a salutare tutti: i baristi, i commercianti, gli artigiani, i ristoratori ed era andato a riordinare le sue cose, per poi accorgersi di non avere niente. Lui era l’usciere, non aveva una sede fisica, era libero, libero dipendente in libero ufficio, era un generico della pubblica amministrazione. Ci aveva messo un po’ a somatizzare il tutto. Non aveva ancora ben realizzato che si era trovato dietro quella scrivania a mezzo cerchio, con una sedia, una sua sedia. La guardò con disprezzo, ripromettendosi di usarla il meno possibile. Dopo quasi trent’anni di lavoro fatto in piedi, a che pro una sedia? “Cambio di competenza, riassestamento delle mansioni”. All’inizio del suo lavoro come usciere, in tempi remoti, anche lui aveva una sua struttura: una scrivania e una sedia, di quelle girevoli. Aveva provato a starci su, ma quel continuo girare gli faceva venire il capogiro, e poi, così seduto, non era visibile da tutti. Decise allora di porla nel deposito, nello stanzino posizionato alla fine del corridoio principale, la smontò e la poggiò su uno scaffale. Per gli anni a venire lavorò rigorosamente in piedi, o poggiato al bordo della scrivania, in maniera molto informale e giovanile. Provò ad esprimere le perplessità riguardo la sua nuova postazione a chi di dovere.

– Come sarebbe a dire: “che me ne faccio di una sedia?” – Gli chiese Diego, il capo del personale, piuttosto scocciato, guardandolo dall’alto in basso.
– Una sedia è, come posso dirti, limitante, ecco, e anche superflua.
– Ma Piero, siamo qui per lavorare! Tu devi stare seduto, ecco spiegato il motivo della sedia!
– Ma non posso farlo in piedi? All’ufficio anagrafe non la usavo mai…
– All’ufficio anagrafe, Piero, mi spiace dirtelo, ma la tua figura era inutile! Qui almeno avrai uno scopo tangibile, se gli utenti non ti troveranno nella tua postazione, chiederanno di TE! Sarai finalmente identificabile, non sei contento?
– Mah, a me fare l’usciere piaceva, e mi gratificava anche, non mi sentivo certo inutile…

Con i colleghi non era andata meglio, non lo capivano, non c’era verso. Ma come poteva fargliene una colpa? Come riuscire a spiegare che quello passato era il lavoro più bello del mondo? Come? Quando ai bambini si chiede cosa vogliono fare da grandi, nessuno risponde “L’usciere dell’ufficio anagrafe!”. Invece il segreto della felicità era tutto lì. E solo ora capiva quanto era stato fortunato. Lo capiva adesso che era troppo tardi per tornare indietro e, in ogni caso, non avrebbe potuto certo rifiutare il nuovo incarico.

Bloccato nella morsa del suo spazio limitato, Piero girava e rigirava, due passi in avanti e due indietro, fino ad arrivare a formare un cerchio, fino a identificarsi in una tigre in catene. Un occhio all’orologio, un altro alla collega, uno sguardo di disappunto alla finestra lasciata impunemente aperta ad accogliere il gelo. Ormai era in preda ad un esaurimento nervoso. Dava le informazioni essenziali agli utenti, ed era al secondo posto anche in questo. Le persone, infatti, appena arrivavano, chiedevano alla guardia giurata in che modo si dovevano destreggiare, e la guardia sorrideva loro e li indirizzava con fare sornione: il numero da prendere è questo, dovete aspettare un po’, avete quindici persone davanti, questa è la sala d’attesa, potete accomodarvi, questo il codice da controllare nel tabellone, state attenti, non c’è di che, siamo qui per servirvi, arrivederci.

Piero non lo tollerava, sentiva che faceva, in maniera totalmente abusiva, il suo lavoro. Mica era l’usciere, quello! Era una guardia, era armato! Era lì per garantire la sicurezza, mica per altro! Anche se, con quel sorriso da fotomodello mancato, quel modo di atteggiarsi e di sculettare, se le sapeva ammaliare bene, le persone. Piero veniva dopo, quando proprio non riuscivano a ottenere tutte le risposte dalla guardia giurata, e spesso, vista la difficoltà delle stesse, nemmeno Piero aveva quelle risposte. Le leggi cambiavano troppo spesso, le regole anche, per essere memorizzate. E lui si sentiva totalmente inutile.

Le mattine passavano lente, densamente lente, e Piero cercava di accorciare i tempi tra una sosta alla macchinetta del caffè (era solito berne almeno tre), un paio di escursioni al bagno, una pausa “per cambiare aria”, una “per sgranchirsi le gambe”, ma le mattine passavano lentissime, comunque.

Quella mattina, la solfa era particolarmente pesante. Tentò allora di concentrarsi sui regali di Natale che ancora non aveva scelto, prese carta e penna e iniziò a tracciare una piccola tabella, a sinistra, nella prima casella libera, inserì il nome del parente e a destra, nella casella attigua, il regalo da acquistare. Era un passatempo poco piacevole, la maggior parte dei parenti che aveva non lo chiamavano mai, durante l’anno. Poco prima di Natale, però, nessuno si dimenticava di fare un saluto a “zio Piero”, lo zio scapolo, senza famiglia, con lo stipendio statale. Tutti i suoi parenti, dalla vicina sorella al lontano cugino, si preoccupavano della sua salute, dal dieci di dicembre in poi, tutti avvertivano l’utilità di parlargli di qualche progetto importante in attesa di finanziamento, come ad esempio un prestigioso Master Intel Job Service che il nipotino avrebbe tanto piacere di frequentare, ma che, di questi tempi… e il Natale, per Piero, altro non era che un elenco su un foglio, come quello che aveva davanti, e inviti a pranzi e a cene in cui vedeva, e a stento riconosceva, nipoti, cugini e parenti tutti.

Ad un certo punto, nella sala gremita, l’atmosfera cambiò, la gente iniziò ad alzarsi e a camminare veloce verso l’uscita. Una specie di sirena prese a suonare, Piero non capiva, si girò per chiedere alla collega dell’accettazione ma quella era già andata via, di corsa. Cosa succedeva? Poteva trattarsi di un’esercitazione anti incendio, di una prova per verificare l’idoneità delle uscite di sicurezza, un controllo partito dai piani alti. La gente, però, pareva davvero preoccupata. Piero non si mosse dalla sua postazione, non gli sembrava il caso di abbandonare così la sua scrivania, poteva essere tacciato di assenteismo, glielo avevano detto appena arrivato, i suoi nuovi colleghi: “Pochi giri e giretti, Ex Usciere, ché qui non siamo all’ufficio anagrafe! Qui partono le segnalazioni per assenteismo!” e lui ci credeva, ai suoi nuovi colleghi, eccome se ci credeva.

Decise di cercare con lo sguardo la guardia giurata, il suo inconsapevole rivale.  Lo vide trotterellare avanti e indietro, con la mano nella fondina, ma senza tirare fuori la pistola. Lo sentì urlare: “Tutti fuori di qui! Allarme attentato! C’è una bomba nella sala!”. Ripeté la frase per tre volte, poi anche lui corse verso l’uscita di sicurezza. La sirena continuava a suonare. Piero era sempre più confuso e disorientato.

“Questi mi vogliono fregare, scommetto che è una pratica subdola e spettacolare per vedere chi è davvero ligio al dovere e chi no. E io? Io sono ligio, non mi muovo di qui fin quando non arrivano ordini dai superiori, quell’ammaliatore in divisa non mi convince, non mi sono mai fidato di lui, mai. Aspetterò.” Piero si sedette sulla sedia, riscoprendone improvvisamente l’utilità, e si guardò intorno. Non c’era quasi nessuno, ormai, e gli ultimi erano in preda al panico. Ad un certo punto si sentì un boato enorme e tutto saltò in aria, rovente.

Di Piero si persero le tracce. Il comunicato ufficiale, dopo qualche giorno, parlò di “tragica scomparsa”.

“Era un grande lavoratore, era!”, fu la frase che più si sentì nei giorni a seguire.
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