La sensazione di già visto era piuttosto forte, dalla prospettiva privilegiata e senza ostacoli del piano superiore dell’autobus. Si vedevano le strade, le casette a schiera con i mattoncini rossi e marroni in facciata, il piccolo ingresso indipendente con il fazzoletto di verde. Erano le stesse immagini in movimento che si vedevano in Tv, negli anni ’80, e in quel caso provenivano dal di sopra di una carrozza.
“Eccola, finalmente” pensava.
Mancava però lo stupore, era come una riscoperta. “La città dove arrivano tutti, la città multietnica in una Europa non omologata.”
Quartieri e quartieri si alternavano, vie lunghe che cambiavano stili, enormi quadrati con i lati formati da strade, grandi aree verdi. Dei vicoli, invece, niente. Quelli erano rimasti solo nelle immagini dei cartoni animati, i vicoli in cui si nascondevano personaggi mascherati, rivoluzionari, barboni e perseguitati. Non li vede, ci sono invece le rientranze, nelle vie della piena ricchezza, dei circoli dei palazzi dell’opulenza, nelle zone appena fuori delle luci e degli schermi con le immagini in movimento, le rientranze che ospitano coloro che in vetrina non ci possono stare e che non riescono però a nascondersi completamente. I barboni che cercano di fronteggiare il freddo con cartoni e coperte, che si confondono nel buio, a pochi passi dai fiumi di gente. E poi foto, sorrisi, selfie, bastoni per selfie, cinesi, draghi, odori di spezie orientali. “Questa non è Londra”, “Nemmeno qui c’è la Londra che mi aspettavo”.
Chinatown, il quartiere dei cinesi allestito come un grande carnevale, a ridosso di Piccadilly Circus: catene enormi di carta che collegano palazzi, dragoni, lampade rosse e facciate riproducenti antichi templi sacri.
E di nuovo nel tubo, a cercare di raggiungere spazi che sappiano di qualcosa di tipicamente English and British.
La città che in realtà pare non esistere, ad eccezione del cuore pulsante, il gelido Tamigi attraversato da ponti e barche e sulle cui acque si specchia una ruota che ha l’ardire di rappresentare un’attrazione, dove all’interno delle sue navicelle si può bere dello Champagne, very british drink.
Il quartiere periferico, dalle case milionarie, Crystal Palace, con una vista che rende l’idea di cosa sia la città, la metropoli dal centro a misura di città di provincia.
Infine, la zona dell’alta finanza. Palazzoni, gente, auto di grossa cilindrata, vetri scuri, Mercedes, volante a sinistra, fermata dell’Underground, teatro, abbazia, candele, ginocchia sulle panche, silenzi evocativi. Coppie di anziani benestanti avvolti da pellicce sfilate ad animali selvatici defunti. Poliziotti presso la stazione, uomini e donne ben collocati e ben identificati, tutti lavoratori con la loro divisa. Telecamere e sicurezza. Gentilezza e disponibilità. E indifferenza. Nella scalinata di un ristorante quattro stelle, un uomo è sdraiato, supino, sospeso con leggerezza sui gradini, come addormentato.
Il via vai incessante della gente in linea con la città cosmopolita, giovani, meno giovani, vestiti in piena linea di noncuranza, quasi come se non esistessero specchi. Passano i secondi, passa qualche minuto. Non pare essere un sonno. Le stampelle a fianco alle gambe sdraiate dell’uomo, la borsa a tracolla senza forma, accanto. La posa che non cambia, il torace immobile, non mosso da nessun anelito, nessun movimento causato dal respiro. I signori ben vestiti camminano veloci e si stoppano un momento davanti al semaforo, controllano l’orologio, sono puntuali per la prima dell’opera teatrale. Notano l’uomo, si guardano, scambiano qualche parola, gli rivolgono un altro sguardo, rapido. Non c’è tempo però di tornare indietro, di cambiare il proprio percorso, di provare a soccorrere qualcuno. Il semaforo torna verde, troppo in fretta, annullando qualsiasi possibilità di variazione del tragitto. La ragazza prova a tornare indietro, a chiedere aiuto ai poliziotti che aveva visto poco prima, cammina e ripete mentalmente una frase che possa riuscire a spiegare che un uomo ha bisogno di aiuto, che forse ha un malore. I poliziotti e i lavoratori in divisa non ci sono più. Torna indietro. Il tempo passa e l’uomo continua la sua posa, inerme. Un barbone gli si avvicina, prova a scaldarlo con le mani, sfrega i suoi palmi e gli poggia sul collo e sul viso dell’uomo, che non risponde. Si sfila poi il suo cappotto e glielo poggia sopra, per ripararlo dal freddo. Non capisce ancora se vittima di un malore, se è sotto l’effetto di alcool o droga, non lo capisce e non gli importa. Il respiro è assente, questo purtroppo è chiaro, con le mani il barbone solleva il cappotto e arriva a coprire il viso dell’uomo, restituendogli un po’ di riservatezza e di dignità, proteggendolo dagli sguardi indagatori dei passanti. “La morte è una questione privata”, pensa la ragazza. Riprende a camminare, il pensiero alla città delle grandi opportunità e le sue contraddizioni. Lontano dalla sensazione di familiarità forzata che aveva interiorizzato negli anni. La sensazione di conoscere qualcuno e ritrovarsi davanti un estraneo e la malinconia del freddo gelido e del peso dell’indifferenza. Le mani fredde nei guanti e il naso all’insù, gli occhi che vanno a cercare con ansia lo stallo di partenza dell’autobus verso l’aeroporto.