La Tratta

di Daniela Piras

Era notte, poco traffico, paesaggio classico di una cittadina del Nord-Sardegna; metà primavera.


Mario schiacciò il piede sull’acceleratore: ancora pochi minuti ed avrebbe finito il suo turno di lavoro, poi sarebbe rientrato a casa.
Lo aspettava un modesto appartamento nei pressi del comune, Mario era orgoglioso di abitare di fronte al palazzo comunale: bastava davvero poco per farlo sentire orgoglioso.

Nel suo condominio l’ascensore era inagibile da tempo immemorabile, fece perciò i tre piani a piedi e giunse dinanzi al portone; infilò la chiave nella toppa ed entrò: come ogni sera quella casa era buia e vuota, sul lavello della cucina vi erano dei piatti sporchi della colazione, sui cui avanzi le formiche si erano date da fare per trasportare le briciole. Si potevano definire con tranquillità gli animali domestici di Mario, che oramai si era abituato alla loro silenziosa presenza così come all’umidità della sua “reggia”.

Sulla televisione in bianco e nero stava un poster di Brigitte Bardot. Sicuramente l’unica cosa allegra e colorata di tutto l’appartamento.

Questo era ciò che ritrovava Mario dopo ogni giornata di lavoro: inutile affermare che se avesse avuto di meglio da fare non sarebbe rientrato subito nella sua “dimora”. Ma che altro poteva fare? Aspettava alternative invano da anni. Si tolse la giacca della divisa e la ripose con ingiustificata fierezza perfettamente nell’armadio e guardò la segreteria telefonica: Niente; nessuna chiamata, nessun messaggio, non era di certo una novità, tutte le sere quella segreteria non dava alcun cenno d’utilità, tranne alcune volte in cui trovava chiamate dall’ufficio o messaggi dalla sua unica zia che viveva in una casa di riposo.

Aprì le finestre e si soffermò a guardare giù per le strade: dei ragazzi seduti sul marciapiede sbraitavano bevendo birra, usando gerghi giovanili a lui ignari; alcune macchine e motorini percorrevano la stretta via, chissà dove andavano le persone a quell’ora?

Se lo chiedeva spesso e sapeva però che non avrebbe potuto darsi alcuna risposta: lui era completamente fuori dal mondo, dalla società, viveva solo per lavorare e lavorava per vivere, o meglio, per tirare avanti. E pensare che da bambino aveva tanti sogni, cos’era rimasto? Continuava stanco a cercare uno scopo nella sua vita e vi trovava sempre il nulla.
Eppure voleva dimostrare al mondo che anche lui ESISTEVA, cercava di farlo nelle poche occasioni che gli si presentavano. La mattina si recava in edicola per acquistare il quotidiano provinciale e con uno sguardo a tratti implorante provava a dire qualcosa all’edicolante ma dalla sua bocca riusciva ad emettere solo un monotono “buongiorno” cui l’altro rispondeva distrattamente e con noncuranza un freddo “altrettanto” e perciò la conversazione finiva lì.

Le altre occasioni che gli si presentavano durante l’arco della giornata si concludevano pressappoco alla stessa maniera. Così Mario trascorreva il suo tempo aspettando le 21.

Ormai non si preoccupava neanche più della sua immagine, non che ci fosse molto su cui soffermarsi, i suoi pochi capelli gli donavano un aspetto povero e i suoi occhi sembravano quelli di un cane appena abbandonato, non sopportava quel suo sguardo e a volte davanti allo specchio s’imponeva di assumere un’altra espressione, più vitale, ma tutto ciò che riusciva a ricavarne era un insulso sguardo vuoto apparentemente cattivo. Il suo fisico era medio, media altezza, medio peso, tutto in lui era “medio” e anonimo.

Per Mario il momento più bello della giornata, che era anche l’unico in cui si muoveva, era quando doveva recarsi al lavoro. Snobbato dai colleghi (si era fatto assegnare il turno della sera per incontrarli il meno possibile), guardato con superiorità dal direttore. In ogni modo lui aspettava le 21 con impazienza. Col suo lavoro d’autista incontrava sempre la stessa gente, padri di famiglia che tornavano dal lavoro.

Si sentiva così parte delle loro vite, viveva in loro funzione e si sentiva utile, esagerando si era autoconvinto d’essere insostituibile. Che cosa avrebbero fatto senza di lui? Se lui non fosse passato col pullman (mica un’auto! Guidava addirittura un mezzo pesante!) come ogni giorno alla stessa ora nelle stesse vie? A volte si ritrovava a pensare cose assurde, immaginava cosa poteva succedere ai “suoi” passeggeri se una sera avesse deciso di cambiare itinerario e costruiva così castelli in aria sui tanti percorsi che avrebbe potuto fare col “suo” mezzo, accelerando e trovandosi a 40/50 chilometri fuori rotta! Al solo pensiero si esaltava all’inverosimile ma sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio, l’audacia per commettere una simile PAZZIA.

Che sarebbe stato poi di lui? Del suo lavoro? E se avesse perso il suo posto?

E così, in assenza della propria, continuava ad immedesimarsi nella vita dei suoi passeggeri: una famiglia, un lavoro gratificante, dei figli, delle domeniche da passare con gli amici…che sogni!!

Così trascorreva la sua vita senza novità né altro.

Da un paio di mesi però c’era qualcosa che lo turbava. Sulla sua tratta a volte viaggiava anche una ragazzina sui 18/20 anni che spezzava con il resto: i pensieri di Mario perciò dovevano sfuggire agli schemi soliti. Non sapeva come comportarsi con lei, si sentiva a disagio al solo vederla: sorridente (ai suoi occhi segno di una sfacciataggine estrema), con l’aria distratta, disorganizzata…

Mario vedeva la sua presenza come un’intrusione nella sua vita, non poteva fare a meno di chiedersi cosa c’era dietro quella ragazza: la sua presenza lo irritava parecchio, era come uno squarcio di realtà, quella stessa realtà che continuamente evitava, che s’insinuava prepotentemente nella sua esistenza, faceva parte di un mondo che ormai lui aveva abbandonato sentendosi a disagio, lo stesso mondo che lo aveva escluso.

Egli vedeva quella ragazza come la rappresentanza vivente del rifiuto della società. E gli faceva male. Così la sua giornata veniva interrotta, capovolta, scossa da lei: non era PREVISTA nella sua mente e tutto ciò che non era previsto lo turbava poiché in lui tutto era già previsto da tempo: il suo tragitto, le frasi di circostanza che doveva dire, i suoi soliti orari.
E allora? Che ci faceva lei? A questo lui non riusciva a darsi una risposta e aveva paura di qualcosa, di qualsiasi evento cambiasse la sua rigida routine.

Voleva cancellare quel bagliore di realtà, gli faceva troppo male, non voleva pensare, ormai si era rassegnato: nessun amico nella sua vita, nessuna donna, niente che non facesse parte del suo tranquillo metro quadrato, il suo frammento di mondo legato al resto da un filo: una tratta, per l’appunto.

Col passare del tempo identificò la ragazza con la realtà, la vita, la società che l’aveva escluso e perciò provò a sfogarsi con l’unico contatto esterno, con la ragazza-tramite.

Provava un astio verso di lei e glielo dimostrava in ogni occasione, in quei suoi due minuti di protagonismo cercava di compensare il vuoto di tutta la giornata, cercava una rivalsa sulla sua vita accanendosi contro una sua rappresentante.

Ma tutto ciò finiva non appena la ragazza gli voltava le spalle: Come il mondo, Appunto.   

***


“La Tratta, di Daniela Piras” (2001)
Secondo posto Prosa Giovani – Concorso di Poesia e Prosa in Lingua Italiana “Mariuccia Ruju Dessy”
«La descrizione iniziale di tratto verista suggerisce i segni esistenziali del protagonista. Le parole, essenziali nella cernita, rafforzano il messaggio del banale quotidiano. Monade chiusa ai rumori del mondo, il protagonista recita la parte dell’incerta attesa. Buona la capacità introspettiva che fa di una storia qualunque quella della debolezza umana. Il tema del disagio viene trattato con malinconia e crudo realismo di dolente attualità.»



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